Ho sempre diffidato delle persone che dicono di aver avuto un’adolescenza serena.
Di solito i casi sono due: ne ricordano romanticamente solo i lati positivi, oppure da ragazzini erano tonti.
Io della mia adolescenza ricordo tutto, e ricordo com’erano i miei amici. Può essere un milione di cose, ma è una fase troppo complessa per liquidarla con tinte dai colori pastello tratte dall’album di famiglia.
Che adolescenza triste bisogna aver vissuto per poterla definire serena?
Per questo ho amato Black Hole, un romanzo grafico di Charles Burns.
Che non è ad acquarello, non si difende con il colore, non smorza con il retino, ma usa delle campiture massicce di nero, con un tratto a pennello che sembra una ferita. Quella ferita con la quale si apre il libro, che è la fessura attraverso la quale si guarda con spavento quello che non si comprende. Feriti sono i personaggi che si rintanano nella foresta, sfregiati da una terribile malattia a trasmissione sessuale che rende i loro corpi come grottesche maschere dell’orrore. La ferita di Rob è una seconda bocca spuntata sul collo che racconta la sua verità.
Il clima, i temi e lo stile di vita rimandano agli anni ’70 pur non legandosi a precise coordinate spazio-temporali. A volte la narrazione si fa un po’ discontinua e alcuni passaggi posso lasciare interdetti, ma nell’insieme anche questi punti deboli rafforzano l’emotività della storia.
Charles Burns, che ha completato il fumetto nell’arco di una decina d’anni, non ha mai reagito molto bene alla domanda “ma di cosa parla Black Hole?”.
Black Hole non è una metafora dell’AIDS, come spesso la critica ha cercato di semplificare.
Black Hole parla della malattia dell’adolescenza. Alcuni guariscono, altri no. Quella cosa oscura che accompagna le persone nella fase transitoria tra giovinezza ed età adulta. Quella cosa che può essere bellissima e crudele, passando da un vortice di sensazioni sconosciute.
No, non è una lettura serena.
E voi, siete guariti dalla malattia dell’adolescenza?
Rispondi