Strategie che svelano e insieme nascondono: che cosa ci insegnano Alice Munro e l’autobiografia d’autore. Lettura e scrittura sono sempre invenzioni
È noto che Alice Munro – come molti altri scrittori – ha sempre attinto alle proprie storie di vita per la scrittura dei racconti. Mi riferisco a Munro perché la questione straziante della figlia Andrea, vittima delle violenze sessuali di Gerald Fremlin, secondo marito della scrittrice canadese, e la vicinanza e il sostegno di Alice a Fremlin quando ha finalmente saputo (ne abbiamo parlato qui), ci hanno mostrato anche alcuni risvolti interessanti e inquietanti del suo laboratorio di scrittura. Ne hanno scritto in tanti ma in dicembre sul New Yorker Rachel Aviv ha pubblicato un saggio che mi è sembrato importante proprio nel mettere a fuoco la tormentata relazione tra vita e scrittura dell’autrice premio Nobel.
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LA MACCHINA CHE TRASFORMA TUTTO
Aviv ha conversato sulla questione con i famigliari di Munro e la secondogenita Jenny le ha detto che sua madre faceva passare “tutto ciò che di difficile avveniva nella sua vita attraverso quella macchina [la scrittura] che trasformava tutto in oro”. Per anni Jenny, scrive Aviv, “ha cercato di parlare con sua madre di qualcosa che era passata in quella macchina ripetutamente”: l’abuso sessuale di Andrea da parte di Gerry e il rifiuto di Alice di vedere i danni che ciò aveva causato. Aveva amato e protetto “la persona più distruttiva della mia vita”, aveva scritto Andrea anni prima. Alice ogni tanto diceva di muoversi nel mondo come se fosse composta da “due donne”, una delle quali usava la vita dell’altra come materiale.
Aviv esamina vari racconti dai quali trasparirebbero situazioni, eventi, personaggi, attitudini, umori e stati emotivi direttamente influenzati da passaggi ben individuabili della vita di Alice Munro.
SI SVELA NASCONDENDOSI
È come se con Munro vedessimo chiaramente ciò che si intuisce (o sospetta) spesso quando si legge un romanzo o un racconto di scrittori la cui biografia ci è nota: chi scrive ci svela qualcosa di sé senza mostrarlo chiaramente; si svela nascondendosi. Sappiamo che nella scrittura autobiografica questa strategia ci può essere di grande aiuto per esprimerci. La finzione come autobiografia.
UNA FORMA BEN STRANA DI ONESTÀ
Scrivere di sé, svelarsi nella finzione, senza dover violare il patto autobiografico, dunque. Semplicemente perché non diremo mai che si tratta di autobiografia anche se le storie, trasfigurate, arrivano dalla nostra vita. [Philippe Lejeune, Il patto autobiografico, Il Mulino,1986].
Sembrerebbe una forma ben strana di onestà, ma è l’onestà di ogni racconto di finzione, un trucco onesto noto da secoli e secoli, senza gli imbarazzanti equilibrismi dell’autofiction.
QUALE REFERENZA?
Oswald Ducrot parla di “vincolo costrittivo” fra ciò che viene enunciato e una realtà, che vale anche per le narrazioni di finzione. Perché “chi enuncia un fatto di fantasia, se anche va creando il suo universo man mano che se ne parla, si comporta come se non lo creasse, ma lo scoprisse o lo raccontasse”.Il referente di un discorso non è quindi, come talvolta si dice, la realtà, ma la sua realtà, vale a dire ciò che il discorso sceglie e istituisce come realtà”. [Oswald Ducrot, Referente, in Enciclopedia Einaudi, Torino, Einaudi, 1980, Vol. 11, p. 703-724].
DISTANZA
Certo, dovremmo fare i conti comunque con figli, familiari, amori, amici, biografi se, come è avvenuto con Alice Munro, il nostro racconto di finzione prevalesse sempre sulla nostra vita e ci impedisse di essere abbastanza sensibili, abbastanza attenti e capaci di partecipare alle sofferenze e alle richieste affettive di chi ci sta vicino. Sarebbe come se il velo della finzione ci coprisse sempre e diventassimo, come pare sia capitato a Munro, due persone, la più espressiva delle quali è quella che usa la vita dell’altra come materiale, senza assumersene le responsabilità.
COSTRUZIONE DI SÉ, COMUNQUE
Del resto, l’enigma è comunque molto complicato. Il tutto infatti ha sempre il profumo (o l’odore) di costruzione del sé, in un modo o nell’altro.
Dobbiamo infatti ammettere che non esiste autobiografia (intesa come autobiografia rispettosa del patto autobiografico) che non sia costruita come se fosse un’opera letteraria (ovviamente indipendentemente dalla qualità della scrittura, che sia d’autore o che sia di un volenteroso dilettante), che non scelga fatti e personaggi dei quali occuparsi, che non usi le strategie retoriche proprie della finzione.
Ha scritto Sergio Zatti:
«Scrivere di sé significa confrontarsi con una forma, per rinnegarla magari, ma tenendola sempre ben presente alla coscienza: è proprio l’esistenza di questa forma a fare dell’autobiografia un prodotto letterario a pieno titolo. Non farà dunque specie che la singolarità irripetibile di ogni esistenza […] possa essere smentita: di fatto non è l’unicità dell’individuo a essere messa in questione, ma il suo simulacro letterario. L’autobiografia infatti mantiene sempre un precipitato irriducibile di costruzione del sé: l’individuo reale non può entrare nella pagina scritta tutto intero, e perciò subisce una serie di processi che lo trasformano nell’immagine della propria autorappresentazione, e questa è fortemente condizionata dai codici letterari che sono codici storicamente e culturalmente determinati.» [Sergio Zatti, Il narratore postumo. Confessione, conversione, vocazione nell’autobiografia occidentale, Quodlibet, 2024]
Immagine: Jeffrey Smart, Approaching Storm by Railway, Wikiart

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