Diari di lettura come diari di viaggio

Togliamo dai cassetti i racconti di quel che la lettura fa nelle nostre vite

I vagabondi di Olga Tokarczuk (Bompiani, 2019) è uno dei libri che più mi capita di rileggere, anche a pezzi, e che più mi sembra capace di suscitare pensieri fecondi sulla condizione di lettore che lascia tracce, che scrive a proposito di ciò-che-legge e di come quel che legge lascia tracce nella propria vita.  (È anche un libro bellissimo per molti altri motivi)

L’ultimo dei paragrafi del libro di Tokarczuk si chiama Imbarco. La narratrice (preferisco non dire l’autrice, perché non mi è chiaro quanto Olga Tokarczuk coincida con la voce che racconta), è in un aeroporto ad attendere l’imbarco del suo volo. Vede un uomo fra i quaranta e i cinquanta che viaggia da solo, si toglie lo zaino e le scarpe e mentre aspetta scrive su un quaderno, anzi un bloc-notes (così nella traduzione italiana), un pezzo di “artigianato economico del Terzo mondo”. Usa una penna al gel con inchiostro nero, si prepara a scrivere e guarda a terra, “per non incrociare lo sguardo degli altri”. 

Anche la nostra narratrice toglie il suo “diario di bordo” dallo zaino e descrive l’uomo che scrive, sicura che anche lui stia descrivendo lei.


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Chi lo leggerà?

Continua Tokarczuk: “Non vergognatevi – penso agli altri, a quelli che aspettano l’apertura del gate -, tirate fuori i vostri diari e scrivete. D’altronde siamo in tanti a scrivere. Non diamo a vedere che ci guardiano, non alziamo lo sguardo dalle nostre scarpe. Ci descriveremo semplicemente a vicenda, è il mezzo di comunicazione più sicuro; ci trasformeremo reciprocamente in lettere e iniziali e ci renderemo eterni sulle pagine di carta, ci plastineremo immergendoci nella formalina di pagine e frasi”. 

A casa, poi, dice, aggiungeremo il diario di questo viaggio agli altri – “li teniamo in una scatola dietro all’armadio, nel cassetto più basso della scrivania o sul comodino.” In questi nostri “diari c’è tutto, anche il marinaio che balla sul molo deserto, da cui una volta partiva una nave dopo l’altra.
“Chi lo leggerà?”


Chiusi nelle scatole

Ecco, mi sembra che quando ci occupiamo di lettori che scrivono delle loro letture e quel che rappresentano nelle loro vite e nelle vite degli altri, ci occupiamo di scrittrici e scrittori di diari cha fanno viaggi del tutto speciali che però, il più delle volte, restano chiusi nelle scatole dove si ripongono i diari. Quello che vorrei fare è fare in modo che quei diari escano allo scoperto, che, opportunamente curati, trovino a loro volta lettrici e lettori.


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[L’immagine: Piet Mondrian, 1906]

Commenti

2 risposte a “Diari di lettura come diari di viaggio”

  1. Avatar antonellacostanzo

    Chi scrive un diario non perde l’innocenza; chi scrive un diario su quanto legge, integra l’innocenza con uno sguardo educato dalla letteratura, non perde l’originalità e si comprende il mondo che ci circonda. Da un’intervista al poeta Seamus Heavey si legge quanto segue:

    Quando uno cresce nell’Irlanda del Nord, trova intorno a sé l’intera mente dell’Europa. C’è l’Islanda nella casa della missione evangelica, la capanna di lamiera con i motivi delle canzoni metodiste che si diffondono la sera sopra i prati… Quando sono andato in Islanda ho visto queste piccole solitarie capanne di lamiera in mezzo alla tundra e ho riconosciuto l’Europa della Riforma. Così si trova il Dio del dissenziente protestante tutto intorno a sé. Il Dio degli Inglesi. Un ricordo della castità imbiancata delle chiese danesi, e quant’altro. Nell’Irlanda del Nord c’è questa Europa della Riforma e poi c’è la cultura pre-Riforma del Cattolicesimo, La Vergine col Bambino, la dozzinale «Vergine in ghingheri», come la chiamava MacNeice. Così, la mente nord-irlandese è divisa, o in uno stadio di assedio – assediata dalla Repubblica se si è protestanti, se cattolici assediata dalla realtà protestante – e quella mente cerca modi per riformularsi, per darsi un senso, per estrarre un significato dalla confusione

    antonella

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