Perché dovremmo leggere Charles Simic

Se n’è andato a 84 anni alcuni giorni fa il poeta Charles Simic. Lui si definiva un “poeta americano” anche se era nato a Belgrado in Serbia. Simic scriveva e parlava in inglese e viveva profondamente e con passione la sua vita negli Stati Uniti, osservando però il mondo intero.

Simic era un poeta grande, grandissimo, che, come scrive Massimo Natale sul Manifesto, ha passato più di cinquant’anni a scrivere e a guadagnarsi “un posto insostituibile nel panorama della lirica mondiale”. Scrive ancora Natale che i suoi versi sono “fatti di niente, divisi fra cielo e terra – fra leggerezza e concretezza”. Versi che potevano leggersi, stampati da una mano amichevole – quella della Poetry Society of America – anche su un manifesto appeso nei vagoni della metropolitana di New York City:

Poem
Every morning I forget how it is.
I watch the smoke mount
In great strides above the city.
I belong to no one.
Then I remember my shoes,
How I have to put them on,
How bending over to tie them up
I will look into the earth.


In italiano sono state tradotte – soprattutto da Adelphi –  molte delle poesie di Simic e anche alcuni dei suoi splendidi saggi.

Simic scriveva molto per la New York Review of Books che ha pubblicato sia i suoi versi, nel corso degli anni, sia articoli di critica letteraria, artistica e cinematografica; ma anche pezzi “politici”, di storia e di memoria.


Per comprendere, per esempio, il suo legame insieme dolente, affettuoso e molto ironico con la Serbia e la comunità serba immigrata in America (lui ci arrivò nei primi anni ‘50), si può leggere il bellissimo saggio breve “The Renegade” del 2007, sul sito della Review. In questo memoir si trova anche una poesia ispirata dalla nonna che morì nel 1948 e che detestava i deliri totalitari del Novecento e giudicava con sarcasmo le folle che idolatravano i “mostri”. Eccola:

Empires
My grandmother prophesied the end
Of your empires, O Fools!
She was ironing. The radio was on.
The earth trembled beneath our feet.
One of their heroes was giving a speech.
“Monster,” she called him.
There were cheers and gun salutes for the monster.
“I could kill him with my bare hands,”
She announced to me.
There was no need to. They were all
Going to the devil any day now.
“Don’t go blabbering about this to anyone,”
She warned me.
And pulled my ear to make sure I understood.

Ma in “The Renegade”, Simic analizza, racconta e critica soprattutto il nazionalismo. In particolare la cecità del nazionalismo dei suoi connazionali serbi davanti alle conseguenze delle proprie idee e della propaganda infuocata contro croati e musulmani. Simic, tra gli anni ’80 e i terribili anni della guerra civile jugoslava degli anni ’90, tornò a dedicare grande interesse alla Jugoslavia e alla sua dissoluzione dopo la morte di Tito. Furono proprio i suoi appelli alla ragione, il suo argomentare civile contro la follia tragica e ridicola del revanscismo serbo, e la critica delle personalità emergenti del radicalismo nazionale, su tutte quella di Slobodan Milošević, a procurargli le accuse di amici e parenti rimasti in Serbia che, appunto, lo considerarono un “rinnegato”.


Scrive ancora Natale nel suo pezzo sul Manifesto che la poesia di Simic resta soprattutto un atto di fiducia nei confronti della realtà: attaccata alla strada, alle cose più che ai pensieri. La poesia di Simic rimane la “poesia di un ‘sapiente’, e sia pure un sapiente in maniche di camicia, un metafisico che brancola però nell’oscurità”.

Prima di chiudere questo modesto ricordo di Charles Simic (1938-2023) segnalo ancora un commovente e divertente saggio dedicato a un mozzicone di matita usato da un poeta “The Poet’s Pencil  ”, pubblicato sempre dalla New York Review of Books nel 2017.

L’attacco è irresistibile e ci dice molto anche sull’idea di poesia che aveva Simic:

“I knew a poet who could only write his poems with a stub of a pencil. Nothing else worked for him as well. His family and friends bought him fountain pens, ballpoints, typewriters, and laptops, but he kept away from them. “It’s like giving a dog a wristwatch for Christmas,” his wife said. Only lead pencils would get him excited. “How come?” friends asked him. Because, he explained, one can chew a pencil all the way down to a stub while thinking what to write next. He also had no use for writing pads, notebooks, and fine stationery. He preferred envelopes of old bills and the backs of leaflets passed out in the streets of New York that advertised quick loans, massage parlors, fortune tellers, and fire sales, though a restaurant menu or a bank deposit slip could serve him just as well”.


E, infine, due brevissime poesie (le sue poesie erano raramente lunghe):

Description   (2015)
It was like a teetering house of cards,
A contortionist strumming a ukulele,
A gorilla raging in someone’s attic,
A car graveyard frantic to get back
On the interstate highway in a tornado,
Tolstoy’s beard in his mad old age,
General Custer’s stuffed horse…
What was? I ask myself and have no idea,
But it’ll come to me one of these days.


Swept Away  (2015)
Melville had the sea and Poe his nightmares,
To thrill them and haunt them,
And you have the faces of strangers,
Glimpsed once and never again.
Like that woman whose eye you caught
On a crowded street in New York
Who spun around after she went by you
As if she had just seen a ghost.
Leaving you with a memory of her hand
Rising to touch her flustered face
And muffle what might’ve been something
Being said as she was swept away.


Il manifesto con Poem è della Poetry Society of America; la fotografia di Simic è da Wikipedia (Di Slowking4 – Opera propria, GFDL 1.2).

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Una replica a “Perché dovremmo leggere Charles Simic”

  1. Charles Simic è stato un grande poeta, uno dei pochissimi con la stessa capacità di Emily Dickinson, vivere nella possibilità di immagini nuove, partendo da un particolare fisico, umile, vicino, una cornacchia, una stampella, una ballerina. Le poesie di Simic non sono mai tristi, anche quando parlano di morte, tutti coloro che lo hanno conosciuto dicono che era uno spirito essenzialmente comunicatore, doveva raccontare storie che sapessero di umanità e lo faceva a tutte le ore, spesso con telefonate notturne, così sono le sue poesie, un amico che si presenta di notte per raccontare qualcosa di mirabolante che non importa se sia o sarà vero, ma ti tiene acceso fino al mattino.

    Di Simic consiglio tutto ciò che è stato pubblicato da noi, le sue magnifiche poesie anzitutto (mancano ancora molte raccolte che spero vengano pubblicate, avrebbe dovuto vincere il Nobel, ma lasciamo stare) i saggi, i libri di aforismi e osservazioni ironiche, il suo poetico libro sull’artista Joseph Cornell (Il cacciatore di immagini è il titolo).

    Qui in basso alcune righe da: La vita delle immagini, Adelphi 2017

    «Ho una fotografia di mio padre in smoking nero con un porcellino da latte sotto il braccio. È in piedi su un palco. Di fianco a lui, due bellezze dagli occhi neri, in abito da sera scollato, ridacchiano. Anche mio padre ride. Il porcellino ha la bocca aperta, ma non sembra che rida. È il veglione dell’ultimo dell’anno. Del 1926. I tre sono in un locale, tipo night club. Alla mezzanotte furono spente le luci e il porcellino fu liberato nella sala. Nella baraonda che seguì mio padre catturò l’animale squittente. Adesso era suo. Dopo gli inchini di rito si fece dare una corda dal cameriere e legò il porcellino a una gamba del loro tavolo. Lui e le ragazze visitarono diversi locali quella notte. Il porcellino li accompagnò legato alla corda. Gli fecero bere champagne e indossare un cappellino di carta. “Povero porcellino” commentò mio padre anni dopo. Allo spuntare del giorno, erano rimasti soli, mio padre e il porcellino a bere in uno squallido bar vicino alla stazione. Al tavolo di fianco un prete ubriaco stava celebrando le nozze di una giovane coppia. Per dare la benedizione ai novelli sposi formò una croce con forchetta e coltello. Mio padre offrì il porcellino come regalo di nozze. Povero porcellino».

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