Lo ammetto: trovo Umberto Eco irresistibile nella saggistica, e considero Il nome della rosa, passando alla narrativa, un libro da rileggere ogni 10 anni (almeno, io lo faccio, perché ogni volta ne colgo differenti e più ricchi livelli di lettura e dico ogni 10 anni perché in genere è un tempo sufficiente perché una rivoluzione planetaria abbia lambito la mia vita – se non altro finora è andata così, ma parlo ovviamente solo di me). Bene, in appendice a questo libro, ci sono quelle meravigliose postille (quelle le rileggo ogni 5, perché sono come i saggi di Montaigne, più invecchio più mi piacciono). Nella parte che vi ho trascritto qui sotto, si parla di come un autore scriva (e perciò parli al lettori) spostandosi continuamente su diversi livelli di senso, dicendo più di quello che vorrebbe dire. Oppure, dicendolo solo ad alcuni, o ancora, giocando di paragrammi, pensando a un senso e scoprendone un altro. Non capita lo stesso a noi? Parliamo tutti per paragrammi, che lo si voglia o no. Qui sotto, un vero precipitato di Umberto Eco (quanto, quanto mi manca).
Una studiosa francese, Mireille Calle Gruber, ha scoperto sottili paragrammi che uniscono i semplici (nel senso di poveri) ai semplici nel senso di erbe medicamentose, e poi trova che parlo di “mala pianta” dell’eresia. Io potrei rispondere che il termine “semplici” ricorre in entrambi i casi nella letteratura dell’epoca, e così l’espressione “mala pianta”. D’altra parte conoscevo bene l’esempio di Greimas sulla doppia isotopia che nasce quando si definisce l’erborista come “amico dei semplici”. Sapevo o no di giocare di paragrammi? Non conta nulla dirlo ora, il testo è lì e produce i propri effetti di senso. Leggendo le recensioni al romanzo, provavo un brivido di soddisfazione quando trovavo un critico (e i primi sono stati Ginevra Bompiani e Lars Gustaffson) che citava una battuta che Guglielmo pronunciava alla fine del processo inquisitorio (pag. 338). “Cosa vi terrorizza di più nella purezza?” chiede Adso. E Guglielmo risponde: “La fretta”. Amavo molto, e amo ancora, queste due righe. Ma poi un lettore mi ha fatto notare che nella pagina successiva Bernardo Gui, minacciando il cellario di tortura, dice: “La giustizia non è mossa dalla fretta, come credevano gli pseudo apostoli, e quella di Dio ha secoli a disposizione”. E il lettore giustamente mi domandava quale rapporto avevo voluto instaurare tra la fretta temuta da Guglielmo e l’assenza di fretta celebrata da Bernardo. A quel punto mi sono reso conto che era successo qualcosa di inquietante. Lo scambio di battute tra Adso e Guglielmo nel manoscritto non c’era. Quel breve dialogo l’ho aggiunto in bozze: per ragioni di concinnitas, avevo bisogno di inserire ancora una scansione prima di ridare la parola a Bernardo. E naturalmente mentre facevo odiare la fretta a Guglielmo (con molta convinzione, per questo poi la battuta mi piacque molto) mi ero completamente dimenticato che poco più avanti Bernardo parlava di fretta. Se vi rileggete la battuta di Bernardo senza quella di Guglielmo, non è altro che un modo di dire, ciò che ci aspetteremmo di sentir affermare da un giudice, è una frase fatta tanto quanto “la giustizia è uguale per tutti”. Ahimè, contrapposta alla fretta nominata da Guglielmo, la fretta nominata da Bernardo fa legittimamente nascere un effetto di senso, e il lettore ha ragione di chiedersi se essi stanno dicendo la stessa cosa o se l’odio per la fretta espressa da Guglielmo non sia insensibilmente diverso dall’odio per la fretta espresso da Bernardo. Il testo è lì e produce i propri effetti. Che io lo volessi o no, ora si è di fronte a una domanda, a una provocazione ambigua, e io stesso mi trovo imbarazzato a interpretare l’opposizione, eppure capisco che lì si annida un senso (forse molti). L’autore dovrebbe morire prima di aver scritto. Per non disturbare il cammino del testo.
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