Entrare nella Recherche è come vaccinarsi contro l’esibizione sociale e narcisistica della lettura

Nel sesto volume della Recherche, Albertine è scomparsa, Proust fa dire al Narratore un pensiero che è una sintesi/premessa di tutta la sua idea della relazione fra l’interiorità sua propria, vera protagonista dell’opera, e gli altri esseri umani:
“I legami fra un essere e noi non esistono che nel nostro pensiero. L’affievolirsi della memoria li allenta, e a dispetto dell’illusione di cui vorremmo esser vittime e di cui, per amore, per amicizia, per cortesia, per rispetto umano, per dovere, rendiamo vittime gli altri, è da soli che esistiamo. L’uomo è l’essere che non può uscire da sé, che non conosce gli altri se non in sé; e, se dice il contrario, mente.”
Non ho ovviamente l’ardire di discutere il pessimismo di Proust (o meglio del suo narratore). Mi interessa invece considerare questa idea, almeno per un momento, come una delle chiavi di lettura di tutta l’opera.
Sergio Givone, nel suo saggio “Dire le emozioni. La costruzione dell’interiorità nel romanzo moderno” (pubblicato in La cultura del romanzo, a cura di Franco Moretti, Einaudi 2001), la dice in modo preciso:
“Nel Tempo ritrovato, a conclusione di _Alla ricerca del tempo perduto, Proust mostra come sprofondando in se stesso, e solo sprofondando in se stesso, l’io salva ciò che altrimenti andrebbe irrimediabilmente perduto.”
Il punto adesso è accettare questa faccenda dell’interiorità. Senza questa chiave difficilmente sarei arrivato alla fine della Recherche; se invece accettiamo che è un lungo infinito discorso d’analisi ossessiva dell’interiorità (oltre a moltissimo d’altro ovviamente), allora accettiamo Proust come compagno di stanza per oltre un anno; e come centro di un paio d’ore di incontri e discussioni dedicate a ciascuno dei sette volumi, questa sua ossessione.
Niente di straordinario. Niente appunto che di per se renda il lettore una persona migliore. E il lettore che si impegna in questo corpo a corpo con l’interiorità del narratore proustiano, ma, in fondo, soprattutto con la propria interiorità, ha in testa la spinta ad analizzarsi, a guardarsi dentro, a guardare il passato del proprio io, o dei molti io che lo formano – ma anche il futuro – in modo insieme più disincantato, ma anche affettuoso, ironico, allontanandosi dagli inganni.

Una specie di vaccino contro la tentazione di esibirla questa lettura di Proust. È quasi con pudore che ne parla; ad altri lettori o a chi è davvero disposto ad ascoltarlo. Perché se non è generico – quindi inutile – il discorso scava dentro, espone quell’interiorità, in fondo può generare disagio.
Molto lontano quindi dalla comoda esibizione di letture per sentirsi a posto con il proprio personaggio-lettore. Proprio l’esibizione di chi si sente una persona migliore perché a un certo punto della propria vita ha letto (o dice/dirà di aver letto) Proust.
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