Il fascino delle voci: dell’evangelista, di Paolo e dello scrittore che scrivendo ci parla soprattutto di quello che ha letto; di noi lettori che parliamo di questo libro, dei Vangeli, di altre letture

Quando, a inizio maggio, alcuni di noi si sono incontrati per scambiarsi alcuni pensieri provocati dalla lettura de Il Regno (Adelphi 2015), il libro che Emmanuel Carrère ha dedicato alla storia dei primi cristiani (definisco così per semplificare, in verità chi l’ha letto sa che è una cosa un po’ diversa e più complessa), mi ha fatto piacere pensare che in un certo senso Carrère fosse lì con noi.
La voce del narratore di Carrère, molto precisa e con un’identità decisa e riconoscibile, descrive e racconta la lettura e l’interpretazione che dei fatti – molti e controversi – fanno gli evangelisti e Paolo. In particolare, è il racconto della lettura di Luca, del suo Vangelo e degli Atti degli Apostoli, oltre che delle Lettere di Paolo.
Quando dico “la voce” del narratore, intendo, in questo caso, dire una cosa semplice: che Carrère ci mette – come negli altri suoi libri – il proprio punto di vista e il proprio parere in modo esplicito, elaborato e, allo stesso tempo, assai apprezzabile sul piano estetico.
Non si tratta ovviamente del fatto che racconti molte vicende personali, in particolare la sua “conversione” al cristianesimo al principio degli anni Novanta, alcune crisi psicologiche avvenute più avanti; alcune sue abitudini (per esempio guardare video porno) oppure il rapporto con alcune persone affettivamente e intellettualmente importanti.
Invece mi riferisco soprattutto ai passaggi “da lettore”. Come questo, quasi un programma di poetica:
“Quando mi raccontano una storia, mi piace sapere chi me la sta raccontando. Per questo mi piacciono le narrazioni in prima persona, per questo scrivo così […].
Ho capito che avrei seguito Luca, che quello che avrei scritto sarebbe stato in gran parte una biografia di Luca, e che le poche righe degli Atti degli Apostoli erano la porta che cercavo per entrare nel Nuovo Testamento” (pag. 107).
Che cosa ci sta dicendo Carrère?
Si riferisce al fatto che negli Atti degli Apostoli, per sedici capitoli la narrazione è impersonale: “una cronaca delle avventure di Paolo”. Poi,
“a un tratto fa la sua comparsa qualcuno che parla. Di lì a poche pagine questo qualcuno si eclissa. Torna dietro le quinte del racconto, da cui uscirà di nuovo alcuni capitoli dopo per restare in scena stavolta fino alla fine del libro” (pag. 106).
Ecco, l’attenzione a questo qualcuno che parla, verso la quale ci guida Carrère è un livello di lettura de Il Regno che è affascinante quanto (o forse di più) del tema proprio del libro. E su questo livello si deposita anche la voce di Carrère, scrittore e lettore, dunque.
Quindi, la voce delle letture fatte da Carrère, la voce dell’autore che ce ne parla, la voce nostra di lettori che ci occupiamo di Carrère e ne parliamo ad altri e tra noi. Voci.
A proposito di un discorso di Paolo nella sinagoga di Troade, che ci restituisce con maestria, (pag. 115), la voce di Carrère ci dice:
“Ho cercato di ricostruire quello che diceva Paolo: il discorso tipo che intorno al 50 della nostra era hanno sentito, in alcune sinagoghe greche e asiatiche, quanti si sono convertiti a qualcosa che ancora non si chiamava cristianesimo. Ho messo insieme e parafrasato le fonti più antiche. Per chi si interessa di questo lavoro di bottega dirò che c’è un po’ della grande professione di fede che si trova nella prima lettera ai corinzi e molto di una lunga tirata che quarant’anni dopo Luca ha messo in bocca a Paolo nel tredicesimo capitolo degli Atti degli Apostoli” (pag. 118).
Memorabile per questa analisi e autoanalisi della voce di chi racconta sono anche le pagine che Carrère dedica al confronto fra il proprio metodo e quello usato da Marguerite Yourcenar in Memorie di Adriano che, confessa, non è mai riuscito a finire. Gli interessano sopratutto i taccuini di lavoro dell’autrice, pubblicati in appendice al romanzo. Il confronto fra il metodo Yourcenar e il proprio, fa dire a Carrère che l’autrice di Memorie di Adriano, appartiene a una scuola diversa dalla sua. E che la propria scuola – “la scuola del sospetto, del dietro le quinte e del making of” – è più “in sintonia con la sensibilità moderna di quanto non lo sia la pretesa allo stesso tempo altezzosa e ingenua di Marguerite Yourcenar di annullarsi per mostrare le cose come sono nella loro essenza e nella loro verità”. Carrère si vede invece come un documentarista che include nel documentario la troupe che riprende, il regista che la dirige, i diverbi, i dubbi, i complicati rapporti con le persone che vengono riprese: tutto dentro il documentario (p. 265).
Verso la fine del libro, nell’Epilogo, si occupa per qualche pagina del quarto Vangelo. Chi l’ha scritto davvero? Senza entrare nel merito della sua tesi (assai suggestiva peraltro), ecco come introduce la faccenda:
“Chi abbia scritto il quarto Vangelo, rimane un mistero.
Si può pensare, al limite, che Giovanni figlio di Zebedeo, pescatore galileo incazzoso ma molto amato da Gesù, sia diventato dopo la morte del maestro una delle colonne della chiesa di Gerusalemme, e poi il jihadista ebreo che ha scritto l’Apocalisse” (pag. 413).
In questo passaggio sentiamo la voce di Carrère così caratterizzata da rasentare un senso di fastidio nel lettore (sensazione alla quale forse ha dato una spinta il lavoro del traduttore italiano). Che ci ricorda anche il notevole narcisismo e la presunzione dello scrittore, che peraltro confessa alcune di queste colpe, anche in questo libro.
Un rischio, che con uno scrittore di talento come Carrère siamo comunque disposti a correre.
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