
Un filo. Un funambolo. Una porzione di mondo che si ferma a guardare. Mentre un’altra parte continua a vivere con la consapevolezza (e l’ansia) di sapere che c’è qualcuno a 110 piani di altezza che ha teso una fune tra le Torri Gemelle. Ed è lì che ci cammina sopra. Sospeso nel vuoto. In una New York in fibrillazione. “Questo bacio vada al mondo intero” di Column McCann (Ediz.BUR) ha lasciato lì sul filo anche me.

Questo libro mi ha davvero sorpresa e in realtà avrei preferito mantenesse il suo titolo originale: Let the great world spin, Lascia che il mondo giri in vortici infiniti, che è poi anche il titolo di uno dei capitoli, oltre che (ben più importante) un verso della poesia Locksley Hall di Alfred Lord Tennyson in cui un giovane soldato rimpiange il suo amore perduto.
Ma pazienza.
È il 1974. McCann inizia raccontando di questo funambolo senza nome (ma il riferimento è al francese Philippe Petit che il 4 agosto del 1974 camminò veramente su una fune a 416 metri di altezza da una torre all’altra) e della popolazione di Manhattan che si ferma a guardare, naso all’insù, tra lo stupito, lo spaventato, il sorpreso, lo scioccato.
McCann ce lo lascia lassù. Mentre inizia a raccontare le vite che scorrono sotto quella fune, in lungo e in largo per una New York a tratti infame. Vite diverse tra loro: c’è Corrigan (irlandese come McCann), definito il “folle di Dio”, un sacerdote che nel Bronx sacrifica la sua vita; ci sono le prostitute che lui aiuta, prima tra tutte Tillie (personaggio fantastico) che a 38 anni è nonna e perde la figlia, prostituta anche lei; e poi ci sono Claire e Gloria, accomunate dall’aver perso entrambe i figli nella guerra del Vietnam.
Due mondi, i loro, completamente diversi. Claire vive nella ricchezza e nell’opulenza dell’Upper East Side. Gloria nel Bronx.
Claire è bianca, bella, moglie di un giudice. Gloria è nera, goffa, discendente di schiavi.
Eppure sono così uguali nella loro veste di madri. Vedove dei loro figli.
Tutte le vite che scorrono nelle pagine del libro sono intrecciate tra loro in modo maestrale da McCann, che le cuce in una trama intensa alla cui base c’è la passione per l’amore e la paura dell’abbandono.
Nelle loro vite sopraggiungono presenze che agiscono come elementi di disturbo, come “Qualcuno che mi entra nella pelle” dice il giovane Joshua (che poi morirà in Vietnam) a sua madre Claire in una lettera in cui le racconta degli hacker che si infilano nelle radio:
“come qualcuno che mi ruba la memoria. Che gli si infila dentro, risale la spina dorsale, fino alla testa, conficcandosi nel cranio, marciando sulle sinapsi, fin dentro le cellule del cervello”.
Tutti hanno paura di scivolare, un verbo che torna spesso. Scivolare dal filo. Dalla vita verso la morte. Dal brutto pensiero a quello bello, per non ascoltare il primo. Del resto “a volte le cose capitano, a volte si scontrano” ci dice McCann.
E intanto lui è lì. La nostra “sagoma umana” resta sul filo. Ed è lui e la sua prospettiva quella che più mi ha segnato. Nel capitolo “Lascia che il mondo giri in vortici infiniti” è il vero protagonista. E la sua metafora è davvero profonda. E adattabile, credo, a ogni sfida e situazione imprevista che ci si presenta nella vita.
Spinto al limite del fare ciò che sembra impossibile, è lì consapevole che
“tutto sarebbe dipeso dal cavo. Da lui e dal cavo. Le torri erano state concepite per resistere fino a un metro di oscillazione in caso di tempesta… Una raffica violenta o un improvviso cambiamento della temperatura avrebbero fatto ondeggiare gli edifici e il cavo avrebbe potuto tendersi e sobbalzare… Doveva essere meticoloso e studiare tutto alla perfezione…”
Alla ricerca, quindi, di un equilibrio tra i limiti del corpo e delle leggi scientifiche e la mente e l’ambizione, la voglia di sfida, di esagerare, di avvicinarsi a Dio. E infatti, l’uomo lassù voleva che anche la mente accompagnasse il corpo fin nel cuore dell’equilibrio.
“Era come fare sesso con il vento. Il vento che complicava tutto, che soffiava via e si scostava dolcemente e poi tornava a scivolargli intorno”.
Ma il filo era anche dolore.
“Proiettato nei piedi, nel peso del bilanciere, nella secchezza della gola… ma la gioia stava nel superare il dolore così da privarlo di ogni importanza. Voleva penetrare il filo con il proprio respiro, e con esso fondersi. Questa sensazione di perdere se stesso. Ogni nervo. Ogni cellula.. la raggiunse sulle torri. Era il luogo del tempo assente”.
Lì dove tutto sembra perfetto. Chissà se è poi possibile. Ma non importa. McCann ci dice che:
“Il mondo gira. Sotto i nostri passi incerti. È quanto basta… Il mondo gira”.
Rispondi