
Estate del 1985, di ritorno da Cefalonia sostiamo a Patrasso, in attesa del traghetto per Brindisi. L’attesa al porto è lunga, mi metto alla ricerca di una libreria, o di una edicola almeno, nella speranza di trovare qualcosa da leggere. Trovo un negozietto, di quelli che hanno un po’ di tutto, articoli da mare, cartoline, giochi, tabacchi, creme da sole, caramelle e, fortunatamente, anche uno di quegli espositori girevoli, di metallo plastificato, con una ventina di libri, alcuni in inglese, altri in tedesco e, fra gli italiani, “Un amore borghese”, di Giorgio Montefoschi, ed. Oscar Mondadori.
Mi incuriosisce, lo sfoglio, leggo qualche paragrafo, lo prendo: mi aspetta una lunga traversata e un libro aiuta. Dopo una notte agitata in cuccetta, la mattina, sul ponte, inizio la lettura: nasce così la mia passione per Montefoschi; dopo “Un amore borghese” non ho più perso un suo libro.
Voglio parlare adesso del suo ultimo romanzo: “Le due ragazze con gli occhi verdi”, ed. Rizzoli, che ho letto in queste vacanze, anche se già uscito da qualche mese. Il fatto è che, per leggerli, i libri di Montefoschi, devo sempre aspettare il momento giusto: ho bisogno di tranquillità e della sicurezza di poter loro dedicare il giusto tempo.
Il libro è diviso in quattro capitoli, ciascuno riferito ad un anno di svolgimento.
Inizia con il 1956, con Pietro Angeli adolescente, con la madre Giulia, la sorella Livia, il nonno Cesare, il padre Guido, costruttore: una famiglia borghese, bella casa ai Parioli, la villeggiatura ad Anzio, il legame profondo con il nonno.
Prosegue con il 1966, e l’innamoramento di Pietro per Laura, ragazza dagli occhi verdi. Laura dapprima ricambia, poi con una lettera da Dobbiaco, dove Laura trascorreva un periodo di convalescenza dopo una seria malattia, gli dichiara di non essere più innamorata di lui.
Poi il 1988, il lavoro di Pietro in una società di produzione cinematografica, la relazione con Paola, la morte del padre Guido, il rapporto con la sorella Livia, l’incontro casuale, dopo più di vent’anni, con Laura, sposata e madre di due bambini, e di nuovo scoppia la passione. Ancora con una lettera, sempre da Dobbiaco, Laura gli annuncia la sua intenzione di troncare la relazione: “la felicità non conta: non è obbligatorio essere felici sempre. Poi, certe volte, uno crede di essere infelice, che la vita gli scappa via da sotto i piedi, e magari non è vero, non è così infelice come pensa: passa un po’ di tempo, e la felicità torna.” Pietro sale a Dobbiaco, incontra Laura, dice di non volerla perdere, Laura gli rivela la gravità della sua malattia e il giorno dopo torna in clinica a Innsbruch, lasciando Pietro solo e disperato.
Infine il 1998, l’incontro alla società di produzione con Maria, figlia di Laura. Maria, anche lei ragazza dagli occhi verdi, si innamora di Pietro, che combatte fra la dolcezza che Maria gli ispira e la nostalgia per Laura.
Non svelo l’epilogo, per lasciare la curiosità della trama; consiglio anzi di non leggere neanche la quarta di copertina: dice troppo.
Non è però la storia ciò che mi appassiona di questo romanzo, e di Montefoschi in generale. E’ piuttosto la grande capacità di scrittura di Montefoschi, la sua continua ricerca di un ritmo musicale nella costruzione della frase, la sua precisione insistita nella narrazione di eventi, anche i più insignificanti, della vita quotidiana.
Poggiava, attorno alle nove e mezzo, nove e tre quarti, l’impermeabile o il cappotto in ingresso; lasciava la cartella gonfia di documenti sulla scrivania in salotto; andava a sciacquarsi il viso e le mani; si sedeva a tavola; restava un istante soprappensiero; versava nel bicchiere un dito di vino, che beveva in un sol sorso, bagnandosi i baffi; dal piatto di portata, prendeva un piccolo pezzo di formaggio.
E poi la città di Roma, descritta nell’evolversi delle varie stagioni e nelle varie ore della giornata, con continui riferimenti al variabile mostrarsi della natura:
Il giardino era in piena luce; tiepido, addirittura. Raccoglieva, nel modesto spazio fra l’aiuola del nespolo e il muro, nel quale erano sistemate le poltroncine di vimini e il tavolinetto tondo, il ronzio lieve delle ultime api innamorate del mese che non voleva morire, attratte dall’aroma dello zucchero rimasto nel fondo delle tazzine del caffè; il canto degli uccelli annidati fra i rami degli alberi; l’odore della terra secca, confuso a quello della siepe impolverata, della ghiaia asciutta.
Alle quattro, il sole era definitivamente scomparso: lasciava a piazza di Santa Caterina della Rota, ai palazzi di Via di Monserrato, la tipica luce perfetta, appena assorbita, che, in primavera, nei vicoli, nelle strette strade del centro di Roma, può durare l’intero pomeriggio.
Ho visto sul blog che Montefoschi non è citato: evidentemente nessuno ha letto un suo libro o, se lo ha letto, non ha ritenuto di parlarne. Mi spiace, mi sarebbe interessata una opinione diversa. Però magari…
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