Andrei Makine, Il testamento francese, Einaudi, 1995/2008, pp.264
Due bambini, un balcone, una ringhiera, vasi di fiori, “la silente eternità della steppa” e la voce di Charlotte, ”la nonna materna..nata in Francia, all’inizio del secolo, nella famiglia di Norbert e Albertine Lemonnier”.
Parlava il russo, ma soprattutto il francese “quella lingua che mia madre chiamava, scherzando ‘ta-langue grand- maternelle’”.
Chi narra è uno dei due bambini, Alesa, il cui nome compare una volta sola verso la fine del romanzo.
Sul nostro balcone volante… io e mia sorella, uno accanto all’altro, guardando la steppa, che sprofondava lentamente nell’oscurità e ascoltando i racconti della nonna… Passavo le vacanze dalla nonna, in quella città ai margini della steppa dove aveva deciso di fermarsi alla fine della guerra.
La città è la piccola Saranza, “ideale per vivere giornate tutte uguali… piantata là ai margini della steppa, paralizzata in uno stupore profondo davanti all’infinito che le si apriva davanti”.
La rivoluzione aveva portato solo una novità… “la chiesa decapitata” della cupola, trasformata in cinema… E nella casa di Charlotte sotto il grande letto una valigia, “la valigia siberiana”, piena di vecchie carte, fotografie, lettere,ritagli di giornali , “attimi fuggenti di realtà“e la nonna che raccontava la Francia della sua gioventù e “vivere vicino a lei significava già sentirsi altrove”.
Ed ad allora ecco Neuilly-sur-Seine, sua città natale, che allora era solo un villaggio di case di legno, ma era anche il luogo in cui un certo Marcel Proust giocava a tennis.
Ma soprattutto ecco Parigi, la città in cui il presidente Faure accoglieva nel 1896 lo zar di tutte le Russie, Nicola II e la sua sposa Alessandra.
Che nesso c’era tra il giovane re, che all’Elysée incontrava duecento senatori e trecento deputati, o che banchettava a Cherbourg, o che applaudiva il Cid e Nicola il Sanguinario, il leggendario carnefice che nel 1905 aveva ordinato di aprire il fuoco su una manifestazione politica con centinaia di vittime?
E ancora “Parigi allagata” nella primavera del 1910, dopo il diluvio e i deputati che vanno in barca in Parlamento
La sola cronologia che contava per noi era quella dei lunghi racconti della nonna; un giorno in quel tempo leggendario, Parigi emergeva dalle acque, il sole brillava e nello stesso momento ci arrivava il grido ancora lontano del treno imperiale. Quell’ordine di eventi ci pareva altrettanto legittimo dell’apparizione di Proust in mezzo ai contadini di Neuilly.
Charlotte attingeva..ora dalla valigia siberiana, ora dai ricordi d’infanzia..a noi poco importava la cronologia esatta! Il tempo dell’Atlantide non conosceva che la meravigliosa simultaneità del presente… quel presente, quel tempo i cui gesti si ripetevano all’infinito era ovviamente un’illusione ottica … La Francia-Atlantide si rivelava una gamma di suoni, di colori, di profumi e l’Elysée, l’Opera, Notre –Dame… quel continente emerso si popolava di cose e di esseri viventi..prendeva forma sotto i nostri occhi. E la chiave della nostra Atlantide era la lingua francese.
Quella lingua che modellava gli individui, scolpiva gli oggetti, sgorgava in versi, urlava nelle strade invase dalla folla, faceva sorridere una giovane zarina che veniva dagli estremi confini del mondo..Ma soprattutto palpitava in noi, nei nostri cuori. “Ero altrove e vedevo la Russia da francese”.
La Russia non era solo Saranza, ma la grande città industriale sul Volga con milioni di abitanti, con le fabbriche d’armi, con i grandi edifici di stile staliniano che incarnava la potenza dell’impero, dove Alesa tornava dopo l’estate.
Quanto la Bella Epoque era lontana dalla Russia, grande lager del terrore staliniano!
Dalla Francia nel 1921 Charlotte era venuta come infermiera in una Russia devastata dalla guerra civile, dalla carestia.
Ecco dalla valigia usciva la terrificante foto di cannibali, di una madre china sul suo bambino e che per settimane si era nutrita di carne umana. E la giovane Charlotte parte da Mosca verso la Siberia, per cercare la madre Albertine
Partì e vide tutto. Sfidò l’infinito di quel paese, gli spazi sfuggenti in cui giorni e anni si perdono. Ma, pur impantanandosi in quel tempo stagnante, lei andava avanti. In treno, in calesse, a piedi… E vide tutto.
In alcune pagine quel e vide ripetuto dà il ritmo alla narrazione di quella lunga traversata segnata da sofferenze, sangue, fango, malattie, in un continente saturo di sangue.
Nel firmamento russo l’apparizione di Charlotte era quella di un’extraterrestre. Non aveva niente a che fare con la storia feroce di quell’immenso impero con le sue carestie, le sue rivoluzioni, le sue guerre civili.
Alesa, nella cucina piena di fumo di casa sua nella grande città sul Volga, ascoltava racconti su Charlotte in Russia ma sognava il balcone, Charlotte e la sua Atlantide, dove sentiva di aver lasciato l’ultima estate una parte di sé.
La nonna raccontava e parlava di Verne, di Proust, recitava poesie di Baudelaire e donava al nipote la lingua francese, che sarà la lingua della scrittura per Alesa, che nella parte finale del romanzo si sente più chiaramente che è l’alter ego di Andrei Makine, lo scrittore russo, che, nato in Siberia nel 1957, sarà poi esule in Francia, dove diventerà scrittore e dove, dopo un faticoso inizio, vincerà prestigiosi premi come il Goncourt e diventerà membro dell’ Académie française .
Il romanzo, che ha una sua storia densa anche di sorprese, come nella parte finale, vede soprattutto l’evoluzione di Alesa dodicenne, poi quindicenne alle sue prime esperienze sessuali e sempre più bisognoso di affermare la propria identità, finchè ..vent’anni dopo… eccolo in Francia e proprio lì rischia di dimenticare definitivamente la Francia di Charlotte .
Mentre l’URSS crollava, si apriva al resto del mondo, avrebbe cambiato nome, regime, storia e confini, Alesa a Parigi, dove vorrebbe far tornare Charlotte , si preoccupa perché la nonna come potrebbe familiarizzare con quelle nuove piramidi,quelle torri di vetro, quegli archi , una Francia che non è più Francia ma Africa , invasa da nuovi barbari, dove per le sue strade si poteva non sentire più una sola parola di francese?
Che ne era di quella Francia,apparsa un giorno nelle steppe di Saranza che doveva la sua nascita ai libri. Sì era per natura un paese fatto di libri, un paese fatto di parole, i cui fiumi scorrevano come strofe, le cui donne piangevano in alessandrini e gli uomini si affrontavano in sirventese. Da bambini la scoprivamo così la Francia attraverso la sua vita letteraria, la sua vita letteraria plasmata in un sonetto e cesellata da un autore.
Come non ricordare per “la valigia siberiana” la valigia di “Balzac e la Piccola sarta cinese” del Dai Sijie cinese che scrive in francese e ancor più Proust, che non è solo nominato, ma è presente in tante pagine per il ritrovamento del tempo perduto attraverso la memoria e l’arte, per l’intermittenza del cuore, per il sentire come contemporaneo il passato, per la possibilità di ritrovare il tempo attraverso la letteratura come tempo interiore.
Il testamento francese, un libro bellissimo, un vero gioiello, che – con il suo evocare, suggerire, incrociare piani psicologici – merita di essere letto e riletto, per gustarne fino in fondo la bellezza, la musicalità, la liricità, per attraversare storia e cultura del 900 francese e russo.
Peccato che al Festivaletteratura di Mantova, Makine, l’autore che più desideravo incontrare, all’ultimo momento abbia rinunciato ad essere presente!
Andrei Makine, Il testamento francese, Einaudi, 1995/2008, pp.264
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