Ci voleva un centenario, come quello della nascita, perché, almeno in Italia, si tornasse a parlare di Mercé Rodoreda (1908-1983), una scrittrice spagnola, anzi catalana, già pubblicata in Italia presso diverse case editrici, ma senza grande successo.
E questa volta, invece, direi che La piazza del diamante, ripubblicato nel 2009 da La Nuova Frontiera sia riuscito a far parlare di sé e a meritare da parte di tutti ottime recensioni. Il romanzo in Italia è stato tradotto più volte: l’ultima traduzione è di Giuseppe Taviani, autore anche della interessante postfazione.
Addirittura oggi esiste anche una traduzione in sardo, in limba sarda, ma forse la notizia non è così sorprendente, considerata l’affinità tra sardo campidanese e catalano.
Leggere sulla copertina che è “il romanzo più bello che sia mai stato pubblicato in Spagna dopo la guerra civile” e considerare che questa è un’affermazione di Gabriel Garcia Marquez è già una garanzia ed una sollecitazione alla lettura, al di là della pubblicità dei mass media.
E infatti ti ritrovi subito coinvolta in una lettura che non riesci ad interrompere, trascinata da quel flusso di coscienza così particolare che è la tecnica narrativa scelta da Mercé Rodoreta, per farti innamorare della protagonista assoluta del romanzo, Natalia, anzi Colombetta, che, con tutta la sua ingenuità e fragilità, si muove a Barcellona prima, durante e dopo i duri tempi della guerra civile. Tutto comincia e finisce in quella “Piazza di Diamante” nel barrio popolare di Gracia ,dove nelle prime pagine Colombetta arriva un po’ controvoglia, vestita “di bianco da capo a piedi…come un sorso di latte. Ed è lì che Quinet, un giovane con occhi da scimmietta brillanti balla con lei e decide che in capo ad un anno sarebbe diventata la sua signora e la sua regina. Quinet è burbero,irrequieto,prepotente, maschilista,.E Combetta lo sposa, nascono due figli e…
Tutto andava avanti così con piccoli grattacapi, finchè venne la repubblica e Quinet si esaltò e andava per le strade gridando e facendo sventolare una bandiera che non sono mai riuscita a sapere dove l’aveva presa.
In quel non sono riuscita mai a sapere– come dice Marco Lodoli su Repubblica– c’è il sapore della vita a metà di Natalia
E’ importantissimo l’ evento storico della guerra civile, che tuttavia resta sullo sfondo e che noi viviamo attraverso i riflessi che ha nella vita quotidiana di Colombetta, che nella sua semplicità non ha alcuna coscienza politica : vlve sulla sua pelle una guerra giusta, ma che distrugge i sogni, le porta via il marito e la lascia a pagare le conseguenze di essere “la moglie di un rosso”.
Di notte , se mi svegliavo, dentro ero come una casa quando vengono gli uomini del trasloco e mettono tutto sottosopra. Così ero io dentro. Con gli armadi in anticamera e le sedie gambe all’aria e tazze per terra da avvolgere con la carta e metterle in una cassa con la paglia e il divano e il letto disfatti in piedi contro la parete e ogni cosa in disordine.
Giustamente la chicana Sandra Cisneros, che con una sua nota introduce il libro, afferma che Mercé Rodoreda “scrive di sentimenti di personaggi così impietriti o sopraffatti dagli eventi da non avere nient’altro che le emozioni da comunicare” E così è la Colombetta, non più bianca come un sorso di latte, ma tutta vestita di nero e, in cima una specie di macchia bianca, la faccia che diventava sempre più minuta, nei tragici anni del dopoguerra, quando il non aver nulla da mangiare la porta a decidere di togliere la vita a sé e ai suoi figli. Questo poi non accadrà, ci sarà un secondo matrimonio con Antoni un uomo sensibile come lei, con cui riuscirà a vivere serenamente solo dopo che, molti anni dopo,ritornata nella Piazza del Diamante,”una cassa vuota fatta di case vecchie con il cielo per coperchio” …
lanciai un urlo di inferno.Un urlo che dovevo portarmi dentro da molti anni, e con quell’urlo così ampio che aveva fatto fatica a passarmi per la gola, dalla bocca mi uscì un pezzetto di niente, come uno scarafaggio di saliva…e quel pezzetto di niente che mi era vissuto tanto tempo dentro era la mia giovinezza che fuggiva con un urlo che non sapevo bene cosa fosse.
Come non pensare all’Urlo di Munch?
Nel 1984 lo scultore catalano Medina-Campney nella Piazza del Diamante ha ritratto Colombetta proprio nel momento in cui lancia il suo profondissimo urlo d’inferno. Un corpo di donna nudo attraversa una parete, un triangolo di metallo e filo spinato, e se ne distacca con le braccia e le gambe protese in avanti
E dopo l’urlo tutto fu diverso e, tornata a casa, il letto di Antoni quella sera era caldo come la pancia di un canarino. Felici è l’utima parola del romanzo. Nulla di melodrammatico e di patetico.
Non è la storia che mi ha attratto,e che potrebbe essere, come qualcuno ha scritto “la tragedia del banale”, l’epica del quotidiano “di un mondo formato mignon”, ma la tecnica espressiva di Mercé Rodoreda, il modo in cui l’io narrante, con un lungo monologo quasi parlato di oltre 200 pagine, sa condurti dentro la storia. E’ un flusso di coscienza che non ha nulla a che fare con Joyce, può ricordare piuttosto Virginia Woolf: Colombetta non è tuttavia l’intellettuale raffinata del circolo Bloomsbury, ma una donna semplice di scarsa cultura, espressione di una coscienza popolare. E così a partire dallo sguardo di questa donna ingenua, di cui cogli tutta la sensibilità e la sua drammatica innocenza, sei coinvolto in un racconto ora struggente, ora lirico, ora duro. I periodi brevi, anche brevissimi, agili con un loro ritmo e musicalità. Leggere le parole prese dal quotidiano, ripetute uguali senza ricerca di sinomini. Tenere e coinvolgenti le tante similitudini.
E sempre la Cisneros nella nota introduttiva dice della Rodoreda che “è una scrittrice per niente piccola, esperta dell’ascolto di chi non parla, di chi è colmo di grandi emozioni ma è muto e non sa nominarle.” E così è appunto Natalia / Colombetta.
Mercé Rodoreda, La Piazza del Diamante, La Nuova Frontiera, 2009, pp 223
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