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In attesa di approfondire i molti temi proposti da Amartya Sen nel suo libro Identità e violenza (la riunione è giovedì 16 novembre alle 21 in biblioteca a Cologno Monzese), due osservazioni collegate.
La prima riguarda la relazione stretta – che Sen sottolinea con forza – fra la descrizione (falsa o più o meno vicina alla realtà) delle identità e la pratica politica.
Descrivere una società come come se fosse divisa in gruppi omogenei e pressoché impermeabili lungo linee etniche o religiose, oltre che una rappresentazione falsata della realtà è anche la premessa necessaria a ogni tipo di azione politica settaria e che intenda creare divisioni e conflitti, quasi sempre violenti; sopraffazione e, in alcuni casi, addirittura vere e proprie stragi.
Forse la considerazione appare banale.
Eppure troppe volte di fronte a tragedie di scontri violenti o di stragi, o anche in situazioni meno gravi come quelle che vedono movimenti politici estremisti e settari guadagnare popolarità – per esempio il Fronte nazionale in Francia o la Lega Nord in Italia – una parte dell’opinione pubblica sembra dimenticare come la contrapposizione, la divisione di parti della popolazione lungo confini invalicabili, sia il risultato di un’azione politica deliberata.
Si preferisce invece credere a entità indipendenti dalle scelte razionali: presunte tradizioni, le culture, la storia; entità che sembrano suggerire l’impossibilità di altri esiti da quelli dello scontro o della divisione.
Il libro di Sen è pieno di esempi di queste divisioni estremizzate, a volte inventate: anche perché in alcuni casi basta classificare per escludere, e poi per sopprimere, trovando presunte “giustificazioni” nella tradizione, appunto, o nella cultura, o nella religione o nella storia.
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La seconda questione, collegata alla prima, è che troppo spesso anche chi si oppone alle politiche di divisione e contrapposizione settaria, che assolutizzano una identità soltanto (etnica o religiosa o culturale o politica), finisce per cadere nella trappola teorica e descrittiva degli estremisti, accettando come rilevante una sola identità, difendendo magari eroicamente quella identità dagli attacchi, ma rinunciando all’unica possibile opzione democratica e di libertà: le identità gli individui se le devono scegliere, e devono avere la possibilità di avere più facce, più pieghe, più caratteri, non una soltanto. La Gran Bretagna che delega al clero mussulmano la rappresentanza dei cittadini di fede islamica è il risultato dell’accettazione di questo modello di descrizione della società.
La stessa “difesa” del cosiddetto “diritto” a conservare la tradizione culturale (l’oppressione delle donne della famiglia, la scelta delle compagnie giuste per i figli, i libri che si possono leggere, i film che si possono vedere) che in buona fede i difensori della società multiculturale perseguono è il risultato del prevalere di questa maschera teorica: l’identità culturale monolitica imposta (raramente scelta consapevolmente) schiaccia quei cittadini, che finiscono col subire la tradizione e la cultura, senza che possano esprimere la propria identità molteplice.
E coloro che, democraticamente, pensano di difenderli, finiscono con l’avallare il pensiero e la pratica dei loro oppressori.
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