Una svista grossolana mi ha “nascosto” la mail di Domenico, mandata al gruppo il primo ottobre! con le sue impressioni di lettura su due libri molto interessanti. Rimedio ora, scusandomi ancora con Domenico, che mi ha fatto notare come le sue note fossero state ignorate. Me lo ha fatto notare proprio il giorno in cui – nel post precedente – sottolineavo come in generale nei blog la partecipazione sia scarsa! Accidenti se poi non pubblichiamo i pochi che scrivono… 😉 Scusa ancora, Domenico
Essendo febbricitante sono rimasto a casa ed ho letto le proposte che avete caldeggiato, molte letture interessanti, come Musil, Il sipario di Kundera, Szymborska, Magris e via dicendo. Tra i libri pubblicati recentemente non avete ancora preso in considerazione quello che è il vero capolavoro venuto a galla in questi anni (ci metterei la mano sul fuoco): Suite francese di Irene Nemirovsky (Adelphi). E’ un libro pubblicato postumo, per la prima volta in Francia nel 2004 e in Italia ad ottobre del 2005, scritto negli anni 1940-41 dalla Nemirovsky che morirà in un campo di concentramento nel 1942.
Vi allego la mia impressione di lettura che ho inviato al forum (Leggere e scrivere) tenuto da Paolo Di Stefano sul sito del Corriere online.
Aggiungo, già che ci sono, un altro libro formidabile uscito lo scorso aprile: La furia del mondo di Cesare De Marchi (Feltrinelli). Allego anche per questo romanzo l’impressione di lettura pubblicata sul forum del Corriere.
Buona serata e auguri
Domenico F.- Avezzano (AQ)
Ho finito “Suite francese” di Irene Nemirovsky, dopo aver letto una cinquantina di pagine avevo scritto sul forum che l’impressione era di avere davanti finalmente un grande libro. A lettura terminata non posso che confermare lo stupore. Il libro che prevedeva cinque parti e che è composto solo dalle prime due, non è incompiuto, termina con un perfetto finale aperto. Avevo letto nel retro di copertina dell’altro libro della Nemirovsky (Il ballo) pubblicato da Adelphi che l’autrice è una delle grandi scrittrici del novecento e non volevo leggerlo, si sa gli editori esagerano (Adelphi compresa).
Su radiotre si era parlato di un libro straordinario e anche alla radio, si sa, esagerano. Ma adesso devo ricredermi, questo libro pubblicato miracolosamente 60 anni dopo la morte dell’autrice non ha nulla da invidiare a molti capolavori del secolo scorso.
La seconda parte (Dolce è il titolo) è un romanzo che potrebbe anche essere letto separatamente, i personaggi sono seguiti più assiduamente, all’interno di un villaggio francese occupato dai tedeschi, Bussy.
La prima parte è un susseguirsi di vicende che si sfiorano durante la Parigi del giugno 1940, la famiglia Pericard, due banchieri in fuga, un prete figlio dei Pericard, un collezionista di porcellane… In uno splendido e terribile capitolo (25) il giovane prete Philippe Pericard accompagna un gruppo di adolescenti verso un riparo più sicuro fuori città; egli è mosso da un vero impeto missionario, vorrebbe trasmettere venerazione per il sacro ma questi ragazzi sono sgraziati, ostinatamente sgraziati pensa, eppure non dovrebbe, egli sta facendo pensieri che non dovrebbe si dice tra sé.
Arrivano davanti ad una lussuosa villa abbandonata, i ragazzi cercano di depredarla rompendo i vetri delle finestre e infilandosi nel maestoso salone, lui tenta di ricondurli alla ragione. Come finirà non lo dico, ma è lo stile della Nemirovsky, rapido, implacabile a fare di questo romanzo un autentico capolavoro. C’è l’amore che stride tra un tenente tedesco ed una francese, la grettezza di certi personaggi borghesi, aristocratici – non fa differenza – la guerra ha “esasperato con precisione” le piccinerie degli uomini, ne viene fuori un ritratto completo, “non ci si può illudere di conoscere il mare senza averlo visto nella tempesta come nella bonaccia”, pensa un personaggio nella parte finale del libro.
La viscontessa di Montmort organizza Feste in onore della Madonna, scrive di suo pugno i discorsi religiosi, invoglia i paesani a partecipare ai riti, prova ripugnanza quando dà loro la mano, striglia suo marito: “Voi cercate solo la pace. Diceva irritata. Perfino Nostro Signore ha detto non sono venuto a portare la pace, ma la spada”. Il collezionista di porcellane che nella sua vita ha pensato solo ai suoi cari oggetti d’arte, non è fuggito da Parigi, lui non ha nulla da temere: “Non si era mai occupato di politica e non vedeva perché non avrebbero dovuto lasciarlo in pace, un tipo così tranquillo, così inoffensivo, un pover’uomo che non faceva male a una mosca e amava solo le sue porcellane. Più seriamente, pensò che proprio lì stava il segreto della sua felicità pur in mezzo a tanto sconquasso: lui non amava niente, quanto meno niente di vivo, di ciò che il tempo corrompe e che la morte rapisce; aveva fatto bene a non sposarsi, a non avere figli… Tutti gli altri ci erano cascati; solo lui era saggio”. Ma tra le aridità si posso cogliere uomini e donne che una grazia ancora l’hanno conservata, non tutto muore, in questo libro scritto con levità sbalorditiva.
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In questi giorni ho letto un bel romanzo italiano pubblicato nello scorso aprile: La furia del mondo di Cesare De Marchi, un autore solido. Il protagonista del romanzo è un bambino di nome Abel, figlio di contadini in un borgo della Germania di fine settecento. Abel si distrae, anche a scuola quando sembra perso tra i pensieri. Non è fatto per il lavoro nei campi, è troppo gracile, ma pure nello studio sembra essere sempre da un’altra parte. In un primo momento anche il parroco del paese aveva pensato che fosse un pò stupido, “era un fatto di natura come tanti; e in fondo questa disgrazia, diversamente da altre, concedeva una felicità soggettiva che uno storpio o un cieco non avrebbero mai raggiunto”.
Il sacerdote si ravvederà e si affezionerà presto ad Abel, avverte nel bambino un’indole speciale. Lo incoraggia, diventa il suo precettore e così iniziano le vicissitudini di Abel. Apprende precocemente, inizierà a comporre i primi versi a tredici anni, un suo verso sembrerà una pericolosa implorazione: “dalla furia salvatemi del mondo”. La furia del mondo del titolo è quella delle sommosse della storia, ma è anche quella più piccola delle incomprensioni quando non si sa bene quale è il nostro posto.
Nel romanzo c’è molta riflessione intorno ai libri, alle storture della storia, alla religione; il parroco ha lasciato il cattolicesimo per la dottrina protestante, l’amore per una donna che poi sposerà è stata una delle forze fatali per la sua conversione: quindi c’è l’amore. Una cura particolare per la lingua da parte dell’autore, nei vocaboli desueti, nelle musicalità ma tutto si tiene perfettamente nella trama del romanzo, non si sente il fastidio dell’inessenziale, del troppo detto.
Il tema dominante, se se ne può ricavare uno, è quello della compassione cieca, Abel e il mondo che lo circonda suscitano un brivido forte, irreparabile, crudele. Un bel giorno una bimba bruna, darà un bacio di soprassalto ad Abel, poi cadranno nella neve e lei disegnerà con le mani le ali di un angelo; Abel non rivedrà più la bimba bruna, verrà a sapere che è morta di una malattia contagiosa solo dopo qualche anno. Lui, Abel, è sempre più avvoltolato nella furia del mondo.
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