Vorrei spezzare l’ennesima lancia a favore di Joyce Carol Oates, questa volta per *Una famiglia americana* (titolo originale, molto più bello: *We were the Mulvaneys*), ed. Marco Tropea.
Tutte le volte che leggo qualcosa di suo, ho come la sensazione che finalmente qualcuno sia riuscito a die quello che _anche io_ volevo dire, ma senza riuscirci. Ad esempio, quando parla il figlio minore, Judd, il piccolino della famiglia Mulvaney:
[…] Ho sempre avuto quella sensazione. Per quanto mi sforzassi non potevo sperare di arrivare a condividere i loro bei giorni, i segreti, le battute. I ricordi. Che cos’è una famiglia, dopo tutto, se non ricordi? Casuali e preziosi come il contenuto del cassetto che in cucina serve da ripostiglio generico. […]
Anche io sono la figlia più piccola…
*Una famiglia americana* racconta le vicende dei Mulvaney, una tipica famiglia americana, appunto, considerata dagli altri perfetta: una bella fattoria nello stato di New York, con animali e piante, quattro figli che sembrano perfetti, tutti si amano e si vogliono bene. Fino a quando una tragedia colpisce la bella figlia Marianne, e la famiglia si disgrega.
Mi ha colpito fin dall’inizio, “Eravamo i Mulvaney, vi ricordate di noi?”, con la carrellata sui sei famigliari, sul paese di Chautauqua, vicino al lago Ontario, fino alla fattoria High Point Farm, proprio come se fosse una cinepresa che si avvicina sempre più al centro dell’azione.
Unica critica contro la Marco Tropea, che ha pubblicato anche i bellissimi *La ballata di John Reddy Heart* e *Storia americane*, la copertina: simile a quella degli altri due (se uno non è attento, pensa che sia lo stesso libro), e che non rende per nulla l’ambientazione della fattoria. Ma amen.
*giuliaduepuntozero
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