Sur porta in libreria una raccolta di racconti di Julio Cortázar, Animalia (traduzione di Ilide Carmignani), 192 pp.
In realtà come raccolta è, per così dire, inventata, perché non l’aveva concepita Cortázar. Sono 21 racconti usciti in libri diversi che ora Aurora Bernádez, prima moglie dello scrittore e sua erede letteraria, ha deciso di confezionare insieme. Sono storie di animali, alcuni esistenti in natura, altri di pura fantasia, “un bestiario in cui gli animali fantastici sembrano veri, e gli animali veri sembrano fantastici”, come ha scritto Luca Ricci su Tuttolibri il 22 marzo 2025. In ogni caso, anche se l’operazione editoriale fa storcere il naso a qualcuno, Cortázar va sempre letto.
Del resto questo tipo di raccolte di racconti non concepiti dall’autore come parte di un volume, si presta a una serie di interrogativi riguardanti la natura e le caratteristiche della forma short story. Un racconto, per esempio, ha bisogno di un contesto fatti di altri racconti che gli sono vicini per tempo di composizione, per tema, per stile, autore implicito o tipo di narratore?
Ricordiamo anche che la prima raccolta di racconti di Cortázar si intitolava, Bestiario (1951).
Intanto qui trovate le prime pagine del primo racconto di Animalia, Axolotl. In origine era nella seconda raccolta dello scrittore, Final del juego, pubblicata nel 1956.
Axolotl
C’è stato un tempo in cui pensavo molto agli axolotl. Andavo a vederli all’acquario del Jardin des Plantes e passavo ore a guardarli, a osservarne l’immobilità, gli oscuri movimenti. Ora sono un axolotl.
Il caso mi portò da loro una mattina di primavera in cui Parigi dopo la lenta invernata apriva la sua ruota di pavone. Scesi lungo boulevard de Port-Royal, presi St. Marcel e poi l’Hôpital, vidi i verdi in mezzo a tanto grigio e mi ricordai dei leoni. Ero amico dei leoni e delle pantere, ma non ero mai entrato nell’edificio umido e buio degli acquari. Lasciai la bicicletta contro la cancellata e andai a vedere i tulipani. I leoni erano brutti e tristi e la mia pantera dormiva. Optai per gli acquari, evitai i pesci banali finché non mi imbattei inaspettatamente negli axolotl. Passai un’ora a guardarli e poi uscii, incapace di fare altro.
Nella biblioteca Sainte-Geneviève consultai un dizionario e scoprii che gli axolotl sono forme larvali, provviste di branchie, di una specie di batraci del genere amblistoma. Che erano messicani lo sapevo già, per via dei loro visetti rosa aztechi e del cartello sopra l’acquario. Lessi che in Africa erano stati rinvenuti esemplari in grado di vivere sul terreno durante i periodi di siccità, ma che non appena arrivava la stagione delle piogge riprendevano la vita in acqua. Trovai il loro nome spagnolo, ajolote, l’informazione che sono commestibili e che il loro olio si usava (non si usa più, pare) come quello di fegato di merluzzo.
Non volli consultare testi specializzati, ma il giorno dopo tornai al Jardin des Plantes. Cominciai ad andarci tutte le mattine, a volte di mattina e di pomeriggio. Il guardiano degli acquari sorrideva perplesso quando gli porgevo il biglietto. Mi appoggiavo alla sbarra di ferro che corre lungo gli acquari e mi mettevo a guardarli. Non c’è nulla di strano in questo, perché fin dal primo momento avevo capito che eravamo legati, che qualcosa di infinitamente perduto e distante ci teneva uniti. Mi era bastato fermarmi quella prima mattina davanti al vetro della vasca dove correvano bollicine nell’acqua. Gli axolotl si ammucchiavano sul misero e angusto (solo io posso sapere quanto angusto e misero) fondale di pietre e muschio dell’acquario. C’erano nove esemplari, e quasi tutti appoggiavano la testa al vetro, guardando chi si avvicinava coi loro occhi d’oro. Quando mi accostai turbato, quasi vergognandomi, a quelle figure silenziose e immobili ammassate sul fondo dell’acquario, mi sentii quasi spudorato. Ne isolai mentalmente una, sulla destra, un po’ separata dalle altre, per studiarla meglio. Vidi un corpicino rosato e come traslucido (pensai alle statuette cinesi di vetro opalino), simile a una lucertola di quindici centimetri, con in fondo una coda da pesce di straordinaria delicatezza, la parte più sensibile del nostrocorpo. Sul dorso gli correva una pinna trasparente che si fondeva con la coda, ma a ossessionarmi erano le zampe, esilissime, che finivano in dita minute, in unghie minuziosamente umane. Fu allora che scoprii i suoi occhi, il suo volto. Un volto inespressivo, senza altro tratto che gli occhi, due orifizi come capocchie di spillo, tutti d’oro trasparente, privi di qualunque vita ma che guardavano, che si lasciavano penetrare dal mio sguardo, il quale sembrava passare attraverso quel puntolino aureo per poi perdersi in un diafano mistero interiore. Un sottilissimo alone nero circondava l’occhio e lo inscriveva nella carne rosa, nella pietra rosa della testa vagamente triangolare ma con lati curvi e irregolari, che la facevano assomigliare perfettamente a una statuina corrosa dal tempo. La bocca era dissimulata dal piano triangolare del viso, solo di profilo se ne intuivano le considerevoli dimensioni; di fronte una fine fessura tagliava appena la pietra senza vita. Sui due lati della testa, dove avrebbero dovuto esserci le orecchie, gli crescevano tre rametti rossi come di corallo, un’escrescenza vegetale, le branchie, suppongo. E quella era l’unica cosa viva in lui: ogni dieci, quindici secondi i rametti si drizzavano rigidi e poi si riabbassavano. A volte una zampa si muoveva appena, vedevo le minuscole dita posarsi con dolcezza sul muschio. È che non ci piace muoverci molto e l’acquario è così angusto; appena avanziamo un po’ urtiamo la coda o la testa di un altro: sorgono difficoltà, litigi, fatiche. Il tempo si sente meno se restiamo immobili.
Fu l’immobilità a farmi chinare affascinato la prima volta che vidi gli axolotl. In qualche modo oscuro mi sembrò di comprendere la loro volontà segreta, abolire lo spazio e il tempo con una paralisi indifferente. Poi capii meglio: le branchie che si contraevano, le zampe sottili che tastavano le pietre, lo scatto improvviso (alcuni di loro nuotano con una semplice ondulazione del corpo) mi provarono che erano capaci di evadere da quel sopore minerale in cui passavano ore intere. Gli occhi, soprattutto, mi ossessionavano. Lì accanto, negli altri acquari, pesci vari mi mostravano l’ingenua stupidità dei loro begli occhi simili ai nostri. Gli occhi dell’axolotl mi dicevano la presenza di una vita diversa, di un’altra maniera di guardare. Con la faccia attaccata al vetro (a volte il guardiano tossiva, inquieto) cercavo di vedere meglio i minuscoli puntolini aurei, l’entrata nel mondo infinitamente lento e remoto di quelle creature rosate. Era inutile battere il dito sul vetro, davanti alle loro facce: non si coglieva mai la minima reazione. Gli occhi d’oro continuavano ad ardere con la loro luce dolce e terribile; continuavano a guardarmi da una profondità insondabile che mi dava le vertigini.
Eppure erano vicini. Lo capii prima che succedesse, prima ancora di diventare un axolotl. Lo capii il giorno in cui mi avvicinai a loro per la prima volta. Al contrario di quanto crede la maggioranza della gente, i tratti antropomorfici di una scimmia rivelano la distanza che ci separa. L’assenza assoluta di somiglianza fra gli axolotl e l’uomo fu la prova che l’identificazione era legittima, che non mi appoggiavo a facili analogie. Solo le manine… Ma anche una lucertola ha mani così e non ci assomiglia in nulla. Credo che fosse la testa degli axolotl, il triangolo rosa con gli occhietti d’oro. Quell’essere guardava e sapeva. Quell’essere reclamava. Non erano animali.
[…]
[Immagine: Cortázar nel 1947]

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