Caro amico R.,
come capirai fra poco, sono di nuovo alle prese con questioni di autobiografia ad Anghiari. L’ultima volta che ci siamo visti non ti ho parlato di questa nuova esperienza – la terza in quattro anni – perché avevo deciso che mi sarei spiegato solo dopo aver capito io stesso di cosa si trattasse esattamente.
Adesso dunque cercherò di spiegarmi impiegando un esempio di uno scrittore che ben rappresenta un uso della forma autobiografica che mi piace molto; del resto, la forma di autobiografia della quale ti voglio parlare oggi è proprio il tema di questo giro di giostra ad Anghiari.
In breve, si tratta di trovare, leggere e farsi ispirare da racconti autobiografici che trasfigurano nella narrazione letteraria.
L’esempio che vorrei proporti è Thomas Bernhard.
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Forse ti sorprenderai perché non ho usato la scrittura di W.G. Sebald, che si presterebbe benissimo al nostro tema, che ha addirittura suscitato un dibattito acceso proprio sulla legittimità – ma possiamo usare questo sostantivo quando parliamo o scriviamo di letteratura? Non è fuori luogo? in letteratura non è legittimo tutto? – sulla legittimità, dicevo, dell’impiego spericolato che Sebald ha fatto di quella che potremmo definire la “finzione autobiografica”.
Ho invece scelto Bernhard che tuttavia è uno scrittore al quale Sebald pare si sia ispirato non poco e il cui stile echeggia spesso nelle sue pagine.
Ecco dunque con Thomas Bernhard e in particolare con il suo romanzo (in Italia ovviamente pubblicato da Adelphi nella splendida traduzione di Renata Colorni) Il nipote di Wittgenstein. Un’amicizia, uscito nel 1982.
In questo romanzo, come e addirittura più che in tutti gli altri, Bernhard non si trattiene nel lavorare su scorci e idee e scene suggerite dalla propria vita, che vengono però come trasfigurate.
Il “nipote” è Paul Wittgenstein, personaggio davvero esistito, nipote del grande filosofo, e dotato di un vero e proprio genio,secondo Bernhard, che gli fu veramente amico. Uomo sensibile e per questo poco adatto alla vita, che trascorse animato dalla grande passione per la musica e l’automobilismo e tormentato da disturbi mentali che lo portarono spesso, soprattutto per decisione della sua famiglia, in ospedale psichiatrico. L’io narrante, che noi potremmo scambiare con lo stesso Bernhard – e che della vita di Bernhard in effetti ha molti tratti, per esempio i vari disturbi e le malattie respiratorie, le fissazioni, l’intolleranza per l’Austria cattolica e bigotta erede diretta del nazionalsocialismo – ci guida nella biografia di Paul, a partire da una degenza che entrambi soffrirono a pochi metri l’uno dall’altro.
Caro R., se ancora non ti ho stuzzicato, spero di riuscirci trascrivendo una delle primissime pagine del romanzo.
Siamo nel 1967 e il narratore è nel Padiglione Herman, un reparto di pneumologia in un ospedale di Vienna dove ha subito un’operazione piuttosto grave. Scrive Bernhard:
«[I]l mio amico Paul» il «nipote di quel filosofo il cui Tractatus logico-philosophicus è ben noto in tutto il mondo scientifico e più ancora in tutto il mondo pseudoscientifico, e proprio nel periodo in cui io ero ricoverato nel Padiglione Hermann il mio amico Paul era ricoverato, duecento metri più in là, nel Padiglione Ludwig, il quale però, a differenza del Padiglione Hermann, non apparteneva al reparto di pneumologia e dunque alla cosiddetta Altura Baumgartner, bensì al manicomio Am Steinhof».
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E poco più avanti: «La sua malattia mentale, che può essere definita soltanto una cosiddetta malattia mentale, si era manifestata già molto tempo addietro, quando Paul aveva circa trentacinque anni. Non che di questa malattia lui stesso abbia detto gran che, ma partendo da tutto ciò che io io so del mio amico non è difficile farsi un’idea di come si è sviluppata questa cosiddetta malattia mentale. Questa cosiddetta malattia mentale, che non è mai stata classificata con esattezza, era presente in Paul sin dall’infanzia. Già il neonato Paul era stato partorito come un malato mentale, con quella cosiddetta malattia mentale che lo ha poi dominato vita natural durante.»
Ecco, caro amico, non vorrei annoiarti. Posso però dirti che lo stile di Bernhard, davvero unico, con le reiterazioni ossessive di alcuni temi e persino delle medesime espressioni, è, come noto a tutti i suoi lettori, componente decisiva del suo fascino. Nel nostro caso, il racconto di alcuni passaggi della vita di Paul, è al tempo stesso una parte dell’autobiografia di Thomas. È un memoir incerto, non sappiamo quanto sia il frutto della vita del nipote di W. e quanto delle, diciamo così, osservazioni del narratore. Sappiamo però che questo stile è decisivo per leggere Bernhard, e che se ci lasciamo prendere dalle sue storie e dal modo di raccontarle, finiamo per non chiederci più neppure quanto ci sia di vero e quanto di inventato in questo memoir.
L’essenza di questo stile e della sua forza si trova nella stessa autobiografia “ufficiale” di Bernhard: cinque volumi nel quale il concetto stesso di biografia, di cronologia, di obiettività, di sviluppo dei temi autobiografici viene stravolto. E che si legge esattamente con gli stessi dubbi, le ambiguità che suscita Il nipote di Wittgenstein.
Su questo stile ha scritto parole illuminanti Luigi Reitani, il curatore del volume di Adelphi che raccoglie i cinque racconti dell’autobiografia di Bernhard. Se il “patto autobiografico”, come lo ha chiamato Philippe Lejeune, si fonda sull’apparente identità di autore, narratore e personaggio della storia, «sono proprio le sottili differenze tra personaggio, narratore e autore a rendere interessante un’autobiografia sul piano letterario. Chi narra può prendere le distanze dal personaggio, commentandone le esperienze». E ancora, poco oltre: «Solo fino a un certo punto il personaggio corrisponde dunque alla figura reale di chi ha scritto il libro. E fra gli stessi commenti della voce narrante e le effettive convinzioni dell’autore (ovviamente mutevoli nel tempo) possono esserci significative discrepanze».
Ti ho trascritto esattamente questo passaggio dell’introduzione all’autobiografia di Bernhard perché mi sembra un manifesto di poetica che, con tutta la modestia del caso, possiamo adottare anche qui ad Anghiari. Nel 1970 in un’intervista, Bernhard ha dichiarato: «Tutto nei miei libri è artificio» tutto, «figure, eventi, azioni, si svolge su una scena».
Aggiunge Reitani: B. non «esita a rimescolare le carte, amplificando a dismisura concreti dati di fatto, montando arbitrariamente sequenze temporali disparate, tacendo episodi significativi, supplendo alle lacune dei documenti mediante la fantasia».
In Bernhard – e questo è un dato decisivo anche per noi, credo – si agita una vera «poetica teatrale dell’artificio» che però «non esclude una sua potenziale valenza conoscitiva. Arrivare al vero attraverso la menzogna è anzi il fine dichiarato dell’autore. Bernhard persegue l’autenticità, non la mimesi del reale. Per esempio, nel secondo volume dell’autobiografia, intitolato La cantina, B. scrive:
«Dobbiamo ammettere che non abbiamo mai comunicato nulla che coincidesse con la verità, ma al tentativo di comunicare la verità non abbiamo mai rinunciato in tutta la nostra vita. Quello che importa è se vogliamo mentire o se vogliamo dire e scrivere la verità, che pure non può mai essere e in effetti non è mai la verità. Per tutta la vita ho sempre voluto dire la verità, anche se ora so che erano menzogne. Alla fin fine quello che importa è soltanto il contenuto di verità della menzogna.»
Caro amico, prima di chiudere e di immaginare la tua obiezione, della quale discuteremo quando avrai risposto a questa mia lettera, aggiungo ancora un ultimo argomento riguardo lo stile icastico di B., che caratterizza sia Il nipote di Wittgenstein sia il resto della sua scrittura, compresa l’autobiografia.
«Le sue» – scrive ancora Reitani – «sono fulminanti istantanee, quasi avesse assunto la poetica fotografica di un Henri Cartier-Bresson. Non si tratta di riprodurre il reale, ma di liberare l’invisibile di cui si compone l’esperienza. Alla linearità della storia, l’“autobiografia” sceglie di contrapporre la natura eccezionale dell’attimo. Il tempo si presenta come un’entità ciclica e interiore e non lineare e progressiva. È per questo che il passato diventa un elemento del presente, il cui senso si dischiude di volta in volta solo attraverso l’analisi critica. A determinare in forma irreversibile gli avvenimenti successivi non è “ciò che è stato”; piuttosto è l’oggi, con le sue domande, a costituire il ricordo.»
Eccoci ai saluti, caro R., e alla tua obiezione. Lo so, stai pensando: ma allora che bisogno ho di scrivere un’autobiografia se non provo a dar luogo alla “mimesi del reale della mia vita“? Non è allora più onesto scrivere direttamente storie d’altri, o storie puramente inventate? Non riuscirei comunque in queste storie a perseguire l’autenticità?
Ecco, proverò a rispondere nella prossima lettera, anzi fra due lettere.
Abbracci, tuo Luigi
(Immagine: Carlos Saenz de Tejada, El tonto del pueblo, 1923 – Wikiart)

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