Lo scrittore spagnolo Javier Cercas in una sua riflessione sul romanzo ha scritto:
[I]l romanzo non è un intrattenimento (o non è solo questo); è, soprattutto, uno strumento di indagine esistenziale, un utensile per la conoscenza di ciò che è umano. È vero che, come uomo, Velázquez è sostanzialmente identico a Picasso e Cervantes a Kafka, così com’è vero che, come artista, Picasso non è superiore a Velázquez e Kafka non lo è rispetto a Cervantes; però Picasso vede nella realtà cose che Velázquez non ha visto e Kafka scopre negli uomini cose che Cervantes non ha scoperto. La scoperta di Kafka non annulla quella di Cervantes, come la scoperta dell’Australia non annulla quella dell’America: quest’ultima scoperta completa soltanto la mappa del mondo; la prima, quella dell’uomo. Non è vero che l’unico obbligo di un romanzo sia raccontare una buona storia e farla vivere al lettore; l’unico obbligo di un romanzo (o almeno il più importante) consiste nell’ampliare la nostra conoscenza di ciò che è umano, e per questo Broch affermava che è immorale quel romanzo che non scopre nessun frammento dell’esistenza fino ad allora sconosciuto.
Sappiamo che il romanzo è forma e che, in esso, una cattiva storia ben raccontata è una buona storia, mentre una buona storia mal raccontata è una cattiva storia; per la stessa ragione, utilizzando vecchie forme il romanzo è condannato a dire cose vecchie, e soltanto utilizzando nuove forme potrà dire cose nuove. Di qui l’imperativo dell’innovazione formale. Il romanzo del XIX secolo non è il modello perfetto e insuperabile del romanzo, perché la forma perfetta del romanzo non esiste; o meglio: l’unica forma perfetta del romanzo è, caso mai, la forma imperfetta ma infinitamente perfettibile che ha concepito Cervantes. Il romanzo ha bisogno di cambiare, di adottare un aspetto che non ha mai adottato, di essere dove non è mai stato, di conquistare territorio vergine, per dire ciò che nessuno ha detto e nessuno tranne lui può dire. È falso, lo ripeto, che i romanzi servano soltanto a intrattenersi, ad ammazzare il tempo; al contrario: servono, prima di tutto, a far vivere il tempo, a renderlo più intenso e meno comune, ma servono soprattutto a cambiare il modo di percepire il mondo del lettore; vale a dire: servono a cambiare il mondo. Il romanzo ha bisogno di essere nuovo per dire cose nuove; ha bisogno di cambiare per cambiarci: per farci diventare ciò che non siamo mai stati.
Possiamo approfittare di Cercas e usare le sue parole per sottolineare alcuni argomenti che ci riguardano più da vicino, che ci stanno a cuore.
Il primo è che l’attenzione alla “forma” è ciò che dovrebbe guidare prima di tutto il gruppo di lettura nella scelta del libro e nella discussione. Perché, per così dire, nella forma si trova tutto ciò che ci serve per una relazione rilevante fra noi, le nostre vite e quel che leggiamo e soprattutto perché in fondo è proprio la forma la vera garanzia di apertura che ci interessa, nella quale i lettori possono essere protagonisti; possono, democraticamente e per libera scelta, entrare e muoversi: in essa, nella forma artistica, troviamo il bene e il male, l’etica e l’estetica, la storia, il passato, il presente e il futuro, il pensiero e l’azione, la paura, la felicità, la scoperta e le tracce da seguire; troviamo insomma la ricerca ininterrotta sull’essere umano, la natura, il mondo.
Il secondo argomento per il gruppo di lettura che troviamo nelle parole di Cercas è ancora più preciso: quando scrive che il romanzo serve soprattutto a cambiare nei lettori il modo di percepire il mondo, che ha bisogno di cambiare per cambiarci e farci diventare quel che non siamo mai stati, lo scrittore spagnolo sottolinea esattamente quel che rende così importante per i lettori la condivisione della lettura: ed è la riflessione su se stessi e le trasformazioni – più evidenti o appena percettibili – che le nostre letture esercitano e hanno esercitato e speriamo continuino a esercitare, sulle nostre vite.
Perché il punto cieco aiuta
Cercas entra ancora maggiormente nel merito indicandoci un certo tipo di romanzo e di racconto che preferisce, che è migliore perché caratterizzato dal punto cieco che dà il titolo al suo libro cui ci riferiamo qui. Il punto cieco, anticipo la conclusione del ragionamento, mi sembra anche uno sguardo privilegiato e particolarmente adatto a quei lettori che portano la loro esperienza di lettura – esperienza alla quale attribuiscono grande importanza nella e per la propria vita – in un contesto sociale dove possa essere condivisa e nel quale costruire relazioni e azioni piene di significato che travalichino il proprio sé. Il punto cieco di Cercas, infatti, non è semplicemente la coscienza dello scrittore del ruolo decisivo del lettore nel dare vita alla sua opera leggendola. Scrive Cercas:
Per insediarsi nell’opera e poterla creare in collaborazione con l’autore e appropriarsene, il lettore ha bisogno che l’autore gli conceda uno spazio: questo spazio è l’ambiguità; e, affinché il lettore possa penetrare in quello spazio e dispiegare lì il rigore, la sottigliezza e l’ingenuità armata che gli richiedeva Valéry, l’autore deve aprirgli una crepa, una sottile porta d’ingresso all’ermetismo del suo mondo fittizio: quella crepa è il punto cieco. Si potrebbe dire che, mentre legge i romanzi e i racconti del punto cieco, il compito del lettore consiste nel localizzare quel punto attraverso il labirinto di tracce che l’autore ha preparato; una volta localizzatolo, il lettore deve infiltrarvisi per addentrarsi a fondo e senza paura, come uno speleologo, in territori che soltanto il romanzo o il racconto possono esplorare, vietati a qualunque altra forma di conoscenza.
Importante sottolineare poi che Cercas non vuole lisciare il pelo ai lettori, elogiandoli indistintamente. No, indica il criterio di discrimine:
Naturalmente, ci sono anche lettori codardi o timorati o incompetenti, privi di qualunque virtù del lettore di Valery, lettori che non trovano il punto cieco o che lo trovano e non lo riconoscono o preferiscono non riconoscerlo, e che pertanto rinunciano, inetti o apprensivi, alle complessità, alle ambiguità, ai paradossi e alle ironie che propone l’autore: lettori che decidono, per esempio, che Don Chisciotte è unicamente pazzo, che Moby Dick rappresenta soltanto il male, che Josef K. è soltanto innocente; ne hanno, ovviamente, il diritto, anche se così accettano di semplificare e impoverire il libro, degradando l’avventura morale e intellettuale che vi propone l’autore.
Possiamo dunque dire che (anche) il gruppo di lettura deve lasciare che sia il lettore a entrare nel punto cieco, a esplorare lo spazio dell’ambiguità. Senza che nessuno, anche se con le migliori intenzioni, si preoccupi di risolvere le ambivalenze e le contraddizioni, si incarichi per suo conto di proteggerlo dai punti ciechi.
Tale esplorazione, nel gruppo di lettura si estende ben oltre il testo del quale si discute, per coinvolgere le vite dei lettori, le relazioni affettive e sociali implicate, le storie di sé raccontate e così via. Il punto cieco di Cercas potremmo vederlo come il luogo attorno al quale costruire lo spazio del gruppo di lettura, aperto, accogliente, dialogico e di ricerca.Ai gruppi di lettura non servono dunque libri che chiudano le strade che i lettori potrebbero voler percorrere: anche se sono libri scritti e scelti con intenti, appunto, di ricerca del bene, come direbbe Siti. Essi devono invece proporsi proprio come gli ambienti di espressione dove ciascuno possa trovare il proprio punto cieco nella lettura, dove numerosi e diversi punti ciechi, trovano protezione e spazio e possano diventare oggetti di ricerca.
*Javier Cercas, Il punto cieco, Milano, Guanda, 2016, pp. 51-52; 81-82.
Rispondi