Deborah Donato, vicina idealmente al gruppo di lettura su Proust, ci manda questa sua nota:
Credo di avere deciso di leggere Proust per motivi di orgoglio. Ne avevo sentito parlare come di un libro che pochi riescono a portare a termine. Sono entrata in quel libro e non ne sono uscita più, ma non perché non l’ho concluso, ma perché la Recherche è interminabile e la sua infinità ha di meraviglioso che è racchiusa in un “io”.Potrei dire cento motivi per cui amo la Recherche, ma il punto centrale è che tutto il mondo per Proust si costituisce nella coscienza.
Questo è il punto da cui la mia lettura parte.
Si costituisce nella coscienza, dicevo: qui bisogna intendersi. Bisognerebbe dire che il mondo si costituisce negli intervalli della coscienza, nei momenti in cui essa sospende il suo giudizio, la sua logicità. Questo momento di sospensione è il punto di avvio della Recherche, il dormiveglia da cui Marcel inizia la costruzione della sua cattedrale.
«Ma a quel punto il ricordo – non ancora del luogo dove mi trovavo, ma di alcuni dei luoghi dove avevo abitato e avrei potuto essere – veniva a me come un soccorso dall’alto per strapparmi dal nulla al quale da solo non sarei riuscito a sfuggire; in un secondo scavalcavo secoli di civiltà e le immagini, confusamente intraviste, di qualche lampada a petrolio, poi di alcune camicie col collo piegato, ricomponevano a poco a poco i tratti originali del mio io».
Nel momento in cui la coscienza non ha ancora ripreso possesso del corpo, l’io è un ventaglio di possibilità: rivive i luoghi in cui ha vissuto, sente i profumi che ha conosciuto.
La Memoria “strappa dal nulla”, questo Proust lo dichiara fin dalle prime pagine. Tra i tanti ricordi dell’uomo che si rigira nel letto, quello di Combray, la casa dei nonni, svolge una funzione di archetipo. Combray non esiste se non nel flusso omnipervasivo dell’io, e appare subito nei riverberi della percezione: «Infatti sono passati molti anni dai tempi di Combray, quando anche nei ritorni più tardivi erano i riflessi rossi del tramonto ad apparirmi sui vetri della finestra».
Esse est percipi per Marcel, senza dubbio, ma in un soggettivismo che non riduce le cose a “oggetti”; la meraviglia è scoprire che le cose sgorgano anima: ogni cosa è viva, tutto risuona del Tutto. L’anima è dappertutto: nelle pietre, nei biancospini, nel fruscio delle foglie. Solo una mente abitudinaria – e tutta la Recherche è una lotta contro l’abitudine – crede che le cose siano immobili:
«Forse l’immobilità delle cose che ci circondano è imposta loro dalla nostra certezza che si tratta proprio di quelle cose e non di altre, dall’immobilità del nostro pensiero nei loro confronti».
Le cose trattengono l’anima di chi le ha avute e chiedono al poeta di liberare quest’anima.
Combray, questa Idea dove tutto ha inizio e da dove bisogna partire per vincere il Tempo, dona innanzitutto l’anima delle cose. La lotta non è contro l’oblio, che anzi il fiume Lete per il platonico Proust ha il compito di preservare le essenze della realtà, ma contro la certezza:
«certo, adesso ero ben sveglio, il mio corpo aveva compiuto un’ultima giravolta e il buon angelo della certezza aveva fermato ogni cosa intorno a me, mi aveva sistemato sotto le mie coperte, nella mia camera, e aveva messo più o meno al loro posto, nell’oscurità, il mio cassettone, il mio scrittoio, il mio caminetto, la finestra verso strada e le due porte».
L’angelo della certezza mi fa tornare coscienza, interrompe l’esperienza panica con il Tutto. Il passato è passato e il presente è netto. Ma solo per poco. La prosa di Proust pone sullo stesso piano ontologico il cavallo Golo, la storia di Genoveffa e di Brabante, la maniglia della porta che gli sta di fronte. Nel reame del Soggetto, realtà e fantasia, cose osservate e cose narrate dagli altri, cose immaginate, temute sognate, ipotesi e paure, stanno tutte sullo stesso piano della coscienza, hanno la medesima importanza.
Il viaggio che inizia a Combray è il viaggio di vivificazione della realtà, compiuta attraverso metamorfosi e corrispondenze. Il cammino ha due strade: quella di Swann e quella di Guermantes. L’ultima legata ai sensi, il cammino delle illusioni e della vanità (con tutto il fascino e la potenza che il mondo visibile delle cose ha per Proust), la prima è misteriosa. La strada del cigno, la strada che riporta alla casa dei nonni, alle visite di Swann alla famiglia di Proust, quando causava il mancato bacio della buona notte. È una strada del ritorno, forse. Oppure Swann è l’idea che anticipa il futuro di Marcel, Odette anticipa Albertine, la gelosia dell’uno è la gelosia dell’altro, in un gioco di corrispondenze in cui, ancora una volta, tranciare di netto la sfera dell’io risulta impossibile. Di certo, il mio Swann è quello «profumato dell’odore del grande castagno, dei cestini di lamponi e d’un sentore di dragoncello».
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