Era tanto tempo che non leggevo ad alta voce. E soprattutto che nessuno leggeva a me qualcosa ad alta voce. Ma solo pochi giorni fa, una voce importante che fa parte della mia vita, ha preso uno dei tanti libri appoggiati sul mio comodino che conosceva bene, ha cercato un brano e, con me accanto, ha iniziato a leggere. Ad alta voce.
La sensazione è stata bellissima e il moto di meraviglia che questo gesto ha suscitato in me, ha riacceso la curiosità e l’interesse verso questa forma di lettura che, in modo quasi istintivo, ci fa pensare all’infanzia. A noi da bambini, se abbiamo avuto la fortuna di avere qualcuno che ci leggeva (ad alta voce) storie più o meno fantastiche, o ai bambini a cui noi oggi leggiamo (ad alta voce) gli stessi o altri racconti.
Ma perché leggere a voce alta? Per la meraviglia! scriveva Daniel Pennac.
Già… per la meraviglia… nel mio caso c’era anche quello. Ma lo si fa anche quando una sola persona vuole trasmettere un messaggio a una moltitudine: come con i testi sacri letti nei luoghi di culto. Quindi, si legge ad alta voce per cercare di comunicare messaggi universali. A volte poi la lettura ad alta voce ha una funzione pratica. Quando non si può tenere un libro in mano o si è persa la vista, il modo più veloce per arricchirsi con i libri è ricorrere alla voce altrui. Indubbiamente un compito importante.
Eppure dall’altra parte del mondo c’è chi usa la lettura ad alta voce per fare molto di più.
Siamo in Birmania. Alle tre del pomeriggio suona la campana tibetana. E dal nulla inziano a far capolino nella sala grande di un monastero piccole sagome minute. Piedi nudi. Testa rasata. Il drappo rosso ad avvolgere il corpo. Tutte, indistintamente, stendono il loro piccolo quadrato di stoffa rosso e arancione sul pavimento di legno. Vi si siedono sopra a gambe incrociate. Aprono il libro di testo che hanno con sé. E, dondolando con il corpo avanti e indietro, iniziano a leggere. Ad alta voce.
Inizia il primo, poi il secondo, poi altri due… infine tutti gli altri.
Pochi secondi e la sala diventa un vociare confuso. Un brusio assordante. Che durerà almeno due ore.
La lettura, nel cuore della Birmania dei monaci buddisti, detentori del sapere, della verità, della dottrina, è ad alta voce. Non rimane “tra il sé e il sé”. Si apre al “tra il sé e l’altro”. E ritorno. La lettura ad alta voce serve a memorizzare meglio. A imparare. A ricordare. Ma ha anche altri due significati che arricchiscono di fascino il primo, già pur importante.
– leggo ad alta voce per me per meglio memorizzare e ricordare ma lo faccio in mezzo ad altri che leggono ciascuno per sé anche testi diversi dal mio, perché sono in grado di non farmi distrarre e dunque di concentrarmi e isolarmi;
– leggo ad alta voce per me per meglio memorizzare e ricordare ma lo faccio in mezzo ad altri che leggono ciascuno per sé anche testi diversi dal mio, con l’ambizione che qualcosa di quello che sto leggendo raggiunga anche loro, contribuendo alla loro crescita culturale. E lo stesso fanno loro con me.
Ve li immaginate voi i vostri figli studiare ad alta voce in mezzo ad altri compagni una pagina di storia, mentre un altro studente, magari più grande e di una classe superiore, legge ad alta voce una pagina di geometria e un altro ancora recita brani di filosofia?
Sarebbe uno scoppiare di risa (anche ben giustificate) e tutto finirebbe in un niente di fatto.
Non che questo non accada anche tra i monaci buddisti, soprattutto i più giovani, come testimonia anche questo video in cui se ne vedono alcuni intenzionati a far tutto tranne che a leggere e a studiare (in fondo molti di loro sono bambini…)
La lettura ad alta voce, per loro, è apprendimento. Esce da sé per tornare nel sé. È trasmissione volta all’interiorizzazione. Le parole pronunciate in cantilena, accompagnate dall’andi-rivieni del corpo, con picchi di intonazione verso gli alti e verso i bassi, sono qualcosa di ben lontano dalla lettura degli aedi nell’antica Grecia o dei cantastorie medievali. Sono qualcosa di diverso dal predicatore che dal pulpito legge il testo sacro. O dalla lettura ad alta voce di una favola al bambino. E anche da quella voce che ha rubato un passo dal libro appoggiato sul mio comodino. In questi esempi, la lettura ad alta voce ha un fine: arrivare all’altro. Lasciando tracce anche in chi la pratica, certo, ma l’obiettivo è arrivare all’altro con cui, al massimo, condividere il significato.
Ma tra i monaci buddisti la lettura ad alta voce si nobilita ancora di più. Diventa strumento di apprendimento, dimostrazione della capacità di isolamento e auto-determinazione, simbolo della volontà di condivisione. Diventa il veicolo per cui la conoscenza entra in noi, ci conquista e vuole essere condivisa per un arricchimento universale.
Questa sì, è una meraviglia.
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