
“Un dolore che era quasi una forma di concentrazione”
Questa frase, al centro del romanzo di Andrea Bajani, Ogni promessa (Einaudi), mi sembra che sia una importante chiave per entrare nel libro. Il narratore-protagonista, Pietro, riferisce di sua madre, Giovanna, che, seduta davanti al fiume, parlava di Mario – il padre di Giovanna, nonno di Pietro – appena morto.
Pietro è come il mediatore di tutto il dolore che provano le persone che gli sono vicine. Dolore che, pure in forme diverse, pervade tutto il romanzo, sempre elaborato, sempre partecipato dal narratore, come fosse un po’ anche proprio, anzi partecipato proprio perché anche proprio.
Un dolore a volte non svelato, le cui cause conosciamo solo indirettamente o in parte, oppure le intuiamo, le immaginiamo, ma non ci sono mai spiegate, mai dette per intero.
Intanto Pietro ha un dolore tutto suo, un’abbandono della donna amata, il senso di una colpa per un figlio che non riesce a generare e da questi dolori parte per entrare nei dolori altrui: quello di sua madre e del ricordo del padre che dalla Russia dove fu mandato dalla guerra fascista, tornò minato, incapace di tornare alla vita “normale” e quindi costretto al disagio causato alla famiglia e poi al ricovero in una clinica. Poi il dolore di Sara, la sua donna che lo abbandona ma soffre la perdita, quella di Pietro e quella di un altro, precedente uomo.
E poi il dolore/ricordo di Olmo, una specie di alter ego del nonno Mario; anche Olmo con il macigno dei ricordi della guerra fascista in Russia, ricordi questa volta elaborati, affidati a libri, mappe e alle foto. Una foto in particolare, terribile; terribile perché con essa riaffiorano le verità di una guerra di sterminio condotta anche dagli italiani, quindi anche Mario e Olmo, coinvolti.
L’elaborazione del dolore insieme con Olmo porta Pietro in un viaggio in una Russia anch’essa ferita, dai ricordi, dalle scomposte ricchezze, dalle solitudini, dai silenzi, dalle migrazioni. Con tutti i morti, a milioni, che stanno sotto quella terra, i morti di quella guerra che gli italiani causarono insieme ai tedeschi.
Ol’ga, la giovane donna che guida Pietro nel suo viaggio sul Don, lo porta, prima della partenza, dal nonno, reduce di guerra. Il nonno lo accoglie con gli onori dovuti a un ospite importante, nella sua povera casa ricorda gli italiani, senza rancori ma senza dimenticare la guerra che loro portarono:
Ol’ga gli stava vicino, gli ha messo una mano sull’unica gamba. Lei aveva una faccia divisa, stare dentro il dolore del nonno, infilarsi in quello spazio privato, lasciarlo lí fuori ad aspettare che fosse finito, oppure tradurre per me tutto quel pianto. Così per un po’ hanno parlato in russo, la tenerezza negli occhi e la violenza dentro la bocca, lei che l’ha guardato da sotto come una supplica. Poi Ol’ga mi ha guardato e mi ha detto che lui non ce l’aveva con me, ma erano morti in milioni, per liberarsi di noi.
E’ difficile racchiudere in poche righe il senso di questo romanzo di Bajani (Roma, 1975), duro; duro per il lettore e severo con i personaggi, soprattutto arduo per il suo narratore che, come ha scritto Antonio Tabucchi su la Repubblica, ha molti altri dentro di sé. Con “il protagonista, il vicario che si assume il compito di portare dentro di sé le emozioni, i sentimenti e le memorie altrui”.
Franco Cordelli sul Corriere della Sera, ci aiuta a prestare attenzione allo stile di scrittura di Bajani: in particolare all’impiego abbondante dell’infinito, che vuole rallentare, smorzare l’azione; e a quello dell’imperfetto, che oltre alla continuità indica il prender tempo, il rinviare. Così come l’uso degli elenchi di oggetti, aspetti, movimenti, tutti per interrompere l’azione. E ancora, gli anacoluti, lo stile nominale per un “accesso alla materia che si vuole rendere familiare, quotidiana, o meglio: meno spiacevole, meno dolorosa”.
E in effetti la lettura di questo libro mi pare non possa essere che rallentata, smorzata; con il passaggio da un capitolo all’altro rinviato al domani. Perché il dolore e la sua lenta elaborazione non ci colgano distratti o superficiali.
Non direi però che Ogni promessa sia cupo o pessimista. Pietro che si assume il peso di “tenere altri dentro di sé”, mi sembra invece rappresenti una speranza di possibile convivenza con il dolore, di dialogo con il dolore e con chi se lo porta sulle spalle, compreso il proprio dolore, che quindi diventa meno pesante; diventa più sopportabile e umano, capace di tenerci vicini agli altri.
La foto è di ausfi è su flickr a questo indirizzo: http://www.flickr.com/photos/ausfi/398637545/
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