
Jean Echenoz, Correre, Adelphi
Non riesce neanche a capire perché gli altri, allo stadio, parlino ogni volta gravemente della loro corsa, come se fosse una cosa seria. Per Emil correre è diventato semmai un piacere, anche se, ormai l’ha capito, è un piacere che deve imparare.
E’ il romanzo su Emil Zátopek, fondista ceco che vinse tre medaglie d’oro alle olimpiadi del 1952 a Helsinki: nei 5000 metri, 10.000 metri e nella Maratona, dopo aver vinto quella dei 10.000 anche quattro anni prima ai giochi di Londra. L’uomo che frantumava tutti i record.
Sull’uomo che correva senza grazia, a strappi, con smorfie inguardabili; l’uomo mite e modesto che si schermiva davanti allo stupore e ai complimenti di tutto il mondo.
Sull’uomo che divenne (consapevole, inconsapevole?) strumento della propaganda del regime stalinista cecoslovacco, che negli anni più bui della paura e delle delazioni conservava in casa un ritratto di Stalin e uno del Presidente ceco Gottwald, osservato da vicino dalla polizia segreta.
Per Zátopek la corsa era gesto naturale, si allenava fino a sfinirsi, fino a svenire a volte, ma lo faceva quasi senza pensarci, perché amava quell’incedere sulla pista, sulla strada o sui sentieri. Si allenava facendo di testa sua, ignorando consigli e indicazioni degli allenatori; introdusse quasi senza pensarci il metodo delle ripetute veloci anche per prepararsi alle prove di fondo.
A parte la storia di Emil, la cosa sorprendente del libro di Echenoz è lo stile: non si avverte nessun respiro epico, il narratore sembra sedersi davanti a voi che leggete, e, sorseggiando ogni tanto un bicchiere di vino, racconta con calma senza soffermarsi a lungo sugli eventi. Non c’è mai retorica, mai aggettivi forti, c’è piuttosto il distacco ironico che pare che Emil stesso avesse contemplando le proprie imprese.
E’ un libro veramente raccontato: nessun dialogo, solo qualche discorso indiretto, appena accennato.
E anche quando l’uomo locomotiva, ormai ritirato dalle competizioni eppure ancora una specie di eroe nazionale per il popolo, trova improvvisamente la forza di alzare la voce e tuonare nelle strade di Praga contro gli invasori sovietici che stavano affossando la Primavera di Dubček, le pagine di Echenoz restano modeste (nel senso migliore), senza epica, un po’ come Zátopek, che finisce per pagare con esilio e lavori in una miniera di uranio le sue parole contro i carri armati.
Ma proprio la rinuncia all’epica lascia, alla fine del libro, l’impressione di aver conosciuto meglio Emil Zátopek, la locomotiva; lascia l’impressione di averlo avvicinato, di averlo visto correre sgraziato e con quelle smorfie, fra il delirio della folla dello stadio olimpico di Helsinki, davanti agli sguardi meravigliati ed entusiasti dei finlandesi che, si sa, hanno sempre avuto una venerazione per i fondisti.
Resta anche, delle pagine di Echenoz, l’immagine di Emil tornato a Praga dopo la punizione in miniera, ma privato della pensione dell’esercito che gli spettava e costretto a fare lo spazzino: ebbene quando lui passa per le vie a raccogliere la spazzatura, gli abitanti scendono per le strade a salutarlo e ad acclamarlo, portano la spazzatura al posto suo e lui corre, corre dietro il camion qualche falcata e gli altri lo incitano, come facevano un tempo. Emil è sempre il loro eroe, il podista imbattibile, la locomotiva.
Non importa se il libro si conclude con Emil che firma un documento di autocritica: per le autorità comuniste, che non lo chiamano più compagno, è sempre importante poter dire che uno come Zátopek ha ammesso di aver sbagliato. E a noi serve per ricordare che in fondo Emil non era un eroe, era un uomo “normale” a cui piaceva correre.
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