Mi ha gelato vedere stamattina (sulla prima pagina di Repubblica) la panchina di Rimini: quella su cui hanno cercato di bruciare vivo un uomo, ieri.
Proprio ieri sera ho letto nel libro di Beppe Sebaste, Panchine (lo sta leggendo il gruppo di lettura di Cologno Monzese), il capitolo “Margini”: l’autore ricorda la “rappresaglia sociale” contro il popolo delle panchine avviata dalle istituzioni di alcune città, soprattutto nei confronti di chi non ha un posto dove dormire. Di chi sta, appunto, sempre ai margini. Di chi è “povero”: quindi clandestino “non sul piano geografico ma ontologico”. Di chi usa lo spazio “pubblico” per sopravvivere e non per consumare. Le panchine le tolgono dalle città e dai parchi e le mettono nei centri commerciali.
Il tempo sulle panchine: è gratuito, è “un contrassegno di una cittadinanza” che non vuole o non può diventare per forza un cliente per esistere in pubblico.
A Rimini forse non hanno fatto altro che portare alle estreme conseguenze alcune idee forti diffuse in questo paese. Della panchina di Rimini scrive Michele Serra.
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