Questo è il mio primo post e scriverlo mi fa uno strano effetto. È molto più che mettere i propri pensieri nero su bianco, vederli prendere corpo e crescere poco a poco, scanditi dal ticchettio incostante delle mie dita sulla tastiera. “Scrivere di Virginia Woolf è difficile”, mi dico (forse a mo’ di alibi), mentre cerco di raccogliere le idee.
Comincio con il rimettere in ordine le impressioni che lo spettacolo di mercoledì sera mi ha lasciato ben vivide in mente.
Al teatro Verdi davano Le serve di Virginia, tratto dal libro di Alicia Giménez Bartlett, Una stanza tutta per gli altri (Sellerio, 2003).
Non sapevo che la Bartlett avesse scritto questo libro (la conosco come celebre scrittrice di novelas negras) ed ero curiosa di saperne di più, vedere come il teatro del Buratto avrebbe messo in scena la figura di Virginia e immergermi nel suo mondo.
In questo caso, però, non è Virginia Woolf a muovere le fila della narrazione, ma la sua cuoca, Nelly Boxall.
Alicia Giménez Bartlett racconta di aver scoperto, quasi per caso, l’esistenza di un diario scritto da Nelly (di proprietà di una collezionista inglese) e di aver concepito l’idea del romanzo accostando i pensieri che le due donne affidavano ai rispettivi diari.
Nelly lavorò in casa Woolf dal 1916 al 1941. La sua vita ruotava intorno alle faccende domestiche, ai discorsi sentiti al mercato, ai battibecchi quotidiani con Lottie (la cameriera dei Woof) e agli avvenimenti piccoli e grandi di quella casa.
La vita di Lottie e Nelly era tutt’altro che facile: la paura della guerra, della disoccupazione, gli effetti della crisi economica, il pesante lavoro in casa d’altri erano condizioni ben dure da sopportare, soprattutto per donne che non possedevano nulla e condividevano un’unica camera e tante speranze per un futuro dai contorni poco netti.
Lo spettacolo, come il romanzo, si apre con un flashback: è un giorno di marzo del 1941, il giorno del funerale di Virginia.
Le luci, si percepisce subito, hanno un ruolo fondamentale: rappresentano la presenza-assenza di Virginia, il suo essere mutevole, la sua distanza.
Quando il sipario si alza, le luci sono bagliori tremolanti, frammentati in una miriade di riflessi acquatici che danzano su un vestito, quello che Virginia aveva indosso quando fu ritrovata cadavere. Non riesco a non sentire il tocco gelido dell’angoscia.
Il percorso narrativo di Nelly e Lottie si snoda attraverso immagini nitide e stati d’animo altalenanti. Nonostante l’incertezza di quei tempi, Virginia e Leonard ricevevano spesso in casa amici intellettuali e artisti, con cui si intrattenevano in discussioni dotte e bizzarre.
Virginia, quando non combatteva contro i suoi terribili malesseri, era una creatura che affascinava, parlava della libertà delle donne, dei suoi libri, aveva opinioni originali e molte (e chiacchierate) amicizie femminili.
Nelly pendeva dalle sue labbra, accoglieva le teorie progressiste della sua signora, rinunciò persino a sposarsi, era orgogliosa di Virginia: “La gente paga per ascoltarla”, non era come le altre signore.
Lottie invece era molto meno incline a farsi affascinare da Virginia: la trovava fredda e poco attenta agli altri.
Era questione di tempo: per quanto in casa Woolf si respirasse un’aria di libertà e di riformismo, Nelly si rese conto che per i signori lei sarebbe sempre stata una domestica.Virginia era distante e, in un certo senso, bloccata dai limiti imposti dalla propria classe sociale.
Il loro rapporto diventava sempre più difficile e sofferto e, a volte, le parole che Nelly pronuncia in scena hanno il sapore amaro della disillusione, il sordo scricchiolio di un mito che s’incrina.
In Possiedo la mia anima (Mondadori, 2006), Nadia Fusini riporta un episodio illuminante in questo senso:
Un giorno Virginia e Leonard davanti, Nelly, la cuoca, seduta dietro, andavano in macchina a Rodmell. Leonard comunicò a Virginia che il Labour Party aveva riscosso una importante affermazione elettorale. “Abbiamo vinto!” esultò Nelly. Virginia sentì quella voce venire da dietro e, lì per lì interdetta, si domandò: “Abbiamo?”. “Abbiamo chi?”. E tra sé pensò che per niente al mondo avrebbe voluto essere governata da Nelly. D’altra parte, a rigor di logica, era lei la transfuga, lei che votava Labour ed era una borghese e un’intellettuale, mentre “labour” significa classe operaia, forza lavoro… Chi era l’intrusa? Non certo Nelly.
Gli applausi cessano, il pubblico si alza, si mormorano i primi commenti. Mi infilo il cappotto e non riesco a dire niente. Non posso giudicare una delle mie passioni-ossessioni, così, su due piedi. Provo allora a guardare Virginia da una prospettiva diversa dalla mia, attraverso gli occhi di un’altra donna, con la forza di un’altra passione-ossessione e, attraverso questi versi scarni, letti alcuni mesi fa, la ritrovo:
[…]
Virginia praying for night
Refusing to be black
For the moon is full
Spilling the skylight
Dripping voices
Or are they birds?
Why did they cease chirping?
When will I cease retching?
And how did my head
Learn to swim?The equinox passed.
She marched
To the river.
A letter for L.
A letter for V.
Stone by stone
The ring ouzel
And starry rooks
The weeds floating
The pitted mirror
A glimpse of gone
A quiet hand
Twisting a sheet
Between her teeth
[…]
I versi sono di Patti Smith, tratti da Birds of Iraq, in Presagi d’innocenza (Frassinelli, 2006).
Il titolo del post l’ho preso in prestito dai REM, una delle tracce più belle (secondo me) di Murmur, l’album del 1983.
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