Cerco di spiegarvi perché mi è piaciuto Into the wild di Jon Krakauer. Lo faccio a fatica, perché il rischio di banalizzare ciò che sto dicendo è altissimo e perché, in fondo, lo stesso libro racconta una storia diversa a ciascuno di noi. Sono le circostanze (quello che siamo in quel preciso momento della lettura) a renderlo così speciale quindi diciamo che ci provo, ma non è affatto detto che ci riesca.
Questo libro parla di una ricerca, della ricerca di sé. Come Zarathustra di Nietzsche o come padre Sergij di Tolstoij, McCandless – il protagonista del libro – abbandona tutto quello che ha (una vita agiata, una famiglia, un futuro promettente) e parte per un lungo viaggio, per trovarsi.
Leggendolo, io mi sono trovata di colpo in cima a una montagna. Questo libro mi ha costretto a sollevare la testa e a guardare l’orizzonte. La solitudine che induce è così piena, ricca, appagante che non ha bisogno di parole. E in questo silenzio, mi sono sentita una pianta in un bosco, ho sentito le radici affondare nella terra umida e il vento scorrere sulle foglie.
Ora, che manca un capitolo alla fine, mi attardo perché so che devo trovare la discesa a valle. McCandless non l’ha trovata, si è perso. Non è difficile capire perché. Da quassù la vertigine del vuoto è irresistibile.
Mi attardo perché devo abbandonare questo stato di autosufficienza perfetta (che è la massima hybris) – e infatti questo è anche un libro sull’orgoglio (McCandless pensa di poter sempre contare solo su se stesso) ma è anche un libro sull’abbandono. Il protagonista abbandona tutti quelli che ama, e tutti quelli che conosce nei suoi due ultimi anni di peregrinazioni (e più diventano intimi, più in fretta li deve lasciare). Come dire che la nostra capacità di amare è inversamente proporzionale al desiderio di possesso.
È ora di scendere, quindi. Ma vi lascio uno dei suoi consigli:
make each day a new horizon.
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