Un romanzo al femminile dalla diaspora del Ruanda, la modernità da umanizzare, il nuovo Cacciari, la sinistra e la politica dell’universalismo da ritrovare
Scholastique Mukasonga, Sister Deborah, Utopia, 136 pp.
Mukasonga, scrittrice ruandese di etnia tutsi, si è trasferita in Francia poco prima del 1994, l’anno dei cento giorni del genocidio, quando un milione di persone fra tutsi e Hutu non estremisti vennero uccisi a colpi di machete e di mazze dall’esercito ruandese e dalle milizie Hutu. Nel massacro perse buona parte della sua famiglia. Nella sua scrittura c’è la testimonianza della diaspora ruandese ma anche la resistenza del suo popolo all’evangelizzazione e alla colonizzazione. Tema di questo romanzo.
La presentazione dell’editore:
«Negli anni trenta del novecento, un vasto movimento di conversione al cristianesimo investe l’Africa orientale. In Ruanda i missionari cattolici invocano la discesa dello Spirito Santo, perché possa annientare il paganesimo indigeno. Il reverendo Marcus, pastore afroamericano giunto dagli Stati Uniti, fonda assieme a una guaritrice, Sister Deborah, una missione evangelica in territorio ruandese. Nei suoi sermoni l’uomo annuncia l’arrivo ormai prossimo di un salvatore. È proprio Sister Deborah a precisare che non solo il messia sarà di colore, ma addirittura una donna. Le ruandesi iniziano allora a scioperare, abbandonano i campi, tengono lontani i mariti, convinte che, dopo mille anni di infelicità, una nuova epoca di gioia e prosperità attenda le donne. I disordini si diffondono, ma sono rapidamente repressi dalle truppe coloniali. Sister Deborah scompare e la sua vita si sublima in leggenda. Non tutto, però, è perduto. Ikirezi, una bambina ruandese che un tempo la suora ha miracolosamente curato, infondendo in lei il suo potere taumaturgico, è nel frattempo diventata una brillante accademica africanista e si mette sulle tracce della sua benefattrice. Riuscirà a ritrovarla? E, se sì, prima o dopo che una donna nera, messia di un’era nuova, rivoluzioni il mondo?»
Mauro Ceruti, Francesco Bellusci, Umanizzare la modernità. Un modo nuovo di pensare il futuro, Raffaello Cortina, 144 pp.
Un libro che Gaspare Polizzi sul Sole 24 Ore (Domenicale del 22 ottobre) definisce «un ostinato richiamo ai valori dell’umanesimo e dell’illuminismo in un tempo che sembra aver smarrito la cognizione dell’umano e di ogni forma di ragionevolezza». E ancora: «Per dar corpo a una rinnovata speranza di futuro gli Autori dialogano con alcuni tra i pensatori che meglio hanno ottemperato all’invito hegeliano di apprendere il proprio tempo con il pensiero. Da Isabelle Stengers a Fritjof Capra, da Bruno Latour a Philippe Descola, da Giacomo Marramao ad Alain Touraine, da Remo Bodei a Vito Mancuso, da Peter Sloterdijk a Tzvetan Todorov, da Jean-Luc Nancy a Stephen Toulmin, Elena Pulcini, Hartmut Rosa, Michel Foucault, Ulrich Beck, María Zambrano, Ernesto Balducci, e si potrebbe continuare con alcune figure portanti del pensiero novecentesco quali Ernst Bloch e Hans Jonas, Maurice Merleau-Ponty ed Henri Bergson.»
La quarta di copertina:
«Possiamo parlare ancora oggi di un “progresso verso il meglio”? È possibile un agire razionale che non sia solo strumentale e tecnocratico, ma capace di accogliere la coscienza ecologica ed etica? È possibile umanizzare la modernità?
Le crisi globali mettono in discussione il futuro dell’umanità. Pandemie, catastrofi climatiche, guerra, crisi economiche ed energetiche ci rivelano che viviamo in un mondo interdipendente.
Se avremo un futuro, sarà un futuro planetario. Preparare questo futuro chiede un radicale cambiamento di paradigma, che prenda congedo dal canone della semplificazione e muova verso un pensiero delle connessioni e delle relazioni, verso un pensiero della complessità, l’unico adeguato ad abitare un mondo in cui tutto è connesso.»
Massimo Cacciari, Metafisica concreta, Adelphi, 423 pp.
Del libro ha scritto Maurizio Ferraris su La Lettura (in dialogo con Cacciari): leggendo il libro «mi sono detto che il tuo scopo fondamentale è quello, sia pure con un attraversamento della filosofia, della letteratura, e delle più varie fonti di pensiero, di gettare un ponte non genericamente “dialogico”, ma filosofico, e più precisamente metafisico, ossia riferito ai fondamenti, tra scienza e filosofia.»
Susan Neiman, Left Is Not Woke, Polity, 154 pp
Filosofa ebrea americana che insegna a Berlino, Neuman affronta il tema forte degli ideali universali di giustizia e umanità che una deriva identitaria – tribalista del pensiero e della prassi progressista avrebbe tradito.
Scrive Fintan O’Toole nella sua recensione sulla New York Review of Books:
«Al centro dell’accusa di Neiman c’è la convinzione che la politica progressista abbia lasciato che le sue energie confluissero in canali tribali di vittimismo competitivo, nei quali gli ideali illuministici sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo hanno ceduto il passo alla convinzione che le identità di gruppo basate su razza, genere, sessualità o etnia siano la principale fonte di fedeltà politica.»
Scrive la stessa Neiman: «Ciò che mi preoccupa maggiormente sono i modi in cui le voci contemporanee considerate di sinistra hanno abbandonato le idee filosofiche che sono centrali per qualsiasi punto di vista di sinistra: l’impegno per l’universalismo rispetto al tribalismo, la ferma distinzione tra giustizia e potere e la fede nella possibilità del progresso.».

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