da LEGGERE O RILEGGERE: GIORGIO BOCCA, Partigiani della montagna

Spero che in tanti ancora leggano [e magari convincano altri a leggere] tutto quello che di credibile e di bello � stato pubblicato sulla Resistenza. Per esempio il libro di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralit� nella Resistenza, Bollati Boringhieri, 1991 – lunghissimo ma appassionante e senza retorica, bellissimo. Poi Giorgio Bocca,…

Spero che in tanti ancora leggano [e magari convincano altri a leggere] tutto quello che di credibile e di bello � stato pubblicato sulla Resistenza.
Per esempio il libro di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralit� nella Resistenza, Bollati Boringhieri, 1991 – lunghissimo ma appassionante e senza retorica, bellissimo. Poi Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Mondadori; e i tanti romanzi, per esempio quelli di Beppe Fenoglio, o quello bellissimo di Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Mondadori.

In questi giorni, Feltrinelli ripubblica Partigiani della montagna di Giorgio Bocca. “Un libro contro i revisionismi pubblicato per la prima volta subito dopo la Liberazione e che oggi viene ristampato. Il fascino di una testimonianza diretta e di una vicenda storica avvincente ed esemplare”, come spiega la scheda preparata dalla redazione di Feltrinelli.it

Nella foto: partigiani sui colli Berici con il comandante Nettuno – Museo del Risorgimento e della Resistenza di Vicenza

Commenti

9 risposte a “da LEGGERE O RILEGGERE: GIORGIO BOCCA, Partigiani della montagna”

  1. Avatar FuckOcculty-online
    FuckOcculty-online

    quello che stavo cercando, grazie

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  2. Avatar Mariangela
    Mariangela

    @tutti @Luigi Gavazzi
    Non ho letto i libri di Pavone, Meneghello e Bocca citati nell’articolo, ma ho apprezzato un saggio che li cita spesso, accreditandone i contenuti e riportandone ampie parti:

    • Gianni Oliva, “La resa dei conti. Aprile – maggio 1945. Foibe, piazzale Loreto e giustizia partigiana”, Mondadori, 1995.

    Per comprendere gli obiettivi di questo libro e le motivazioni dell’autore non posso che parafrasare la sua introduzione: la mancanza di informazione su un preciso momento storico distorce il passato e crea rimozioni che favoriscono improvvisi ritrovamenti che si prestano a strumentalizzazioni di tipo ideologico. Per questo motivo i fatti di piazzale Loreto e le vicende legate alla giustizia insurrezionale della primavera del 1945, nel Nord Italia e nella Venezia Giulia, devono fare parte della storia e non della polemica politica.

    Le premesse di Gianni Oliva sono chiarissime e condivisibili. Penso infatti che il suo lavoro sia la risposta migliore alla polemica divampata agli inizi degli anni ’90 sul “triangolo rosso” e al conseguente filone storiografico, tutt’ora prolifico, che punta sul “sangue dei vinti”.

    Il libro l’ho letto da poco, benché non sia recentissimo, e l’ho trovato argomentato con chiarezza e ben documentato. Oliva illustra il particolare contesto in cui avvennero le esecuzioni sommarie dei giorni attorno alla Liberazione fornendo una spiegazione efficace sulla situazione che si era creata in Italia: la guerra di liberazione (dall’occupante germanico) si intrecciava con la guerra civile (tra repubblichini e partigiani) e, perlomeno al Nord, con la lotta di classe che rivendicava un cambiamento sociale. Senza dilungarmi oltre, aggiungo solo, in merito a quest’ultimo punto, che questo libro mi ha aiutata a comprendere l’importanza dell’azione operaia nell’ambito della Resistenza e dela lotta di Liberazione.

    Saluti,
    Mariangela

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  3. Avatar Mariangela
    Mariangela

    @Tutti @Luigi Gavazzi
    Luigi, raccolgo il tuo invito del lontano febbraio 2004 per segnalare che sto leggendo un bel libro sulla Resistenza e, visto che nell’articolo ci sproni al proselitismo, consiglio a tutti di andarselo a prendere e leggerne perlomeno il primo capitolo: fa capire tante cose, soprattutto sul clima politico del dopoguerra.

    • Mimmo Franzinelli, Nicola Graziano, “Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio” Feltrinelli”, 2015.

    Sottoscrivo subito la probabile obiezione: più che sulle vicende resistenziali il lavoro di Franzinelli e Graziano si incentra su quanto accaduto negli anni immediatamente successivi al conflitto; è un libro, e qui ci vedo il raccordo con il testo di Gianni Oliva, che si potrebbe citare a proposito della “resa dei conti” di cui, come sottolineano anche gli autori, talvolta abbiamo una percezione rovesciata (l’allusione esplicita al “sangue dei vinti” è d’obbligo).

    A causa della mancata epurazione della struttura burocratica e giudiziaria dello stato, la giustizia non era particolarmente benevola nei confronti di chi alla lotta contro il nazifascismo aveva dato un contributo attivo. Le corti non assicurano parità di trattamento tra fascisti o collaborazionisti ed ex partigiani. Dopo la Liberazione, infatti, molti resistenti (gli autori parlano di diverse centinaia) furono arrestati in quanto sospettati di episodi di giustizia sommaria nei confronti dei fascisti. Gli arresti in molti casi venivano disposti sulla base di rapporti di polizia stilati durante la RSI (!!).

    Visto il clima politico avverso e confidando in tempi migliori, alcuni avvocati militanti scelsero come linea difensiva il riconoscimento dell’infermità mentale dei loro assistiti, sperando di poter ottenere pene più miti; questa aspettativa doveva però scontrarsi con la realtà politica degli anni successivi e con il fatto che l’amnistia Togliatti per i casi di detenzione psichiatrica non sarebbe stata applicabile. Se l’amnistia beneficiò i fascisti e i collaborazionisti che uscirono di galera, in alcuni casi anche quando il coinvolgimento in atti di efferata violenza era lampante, non poté giovare ai “pazzi per la libertà” che dovettero subire lunghi anni di trattamento manicomiale, coercitivo e annichilente, nell’ospedale psichiatrico di Aversa.

    Io di questa vicenda non avevo mai sentito nulla, e leggo che anche gli autori lamentano una mancanza di studi al proposito. Le loro fonti sono sostanzialmente due: le cartelle cliniche degli internati e l’archivio personale di Angelo Jacazzi, detto “l’Angelo dei pazzi”. Jacazzi fu il segretario della sezione del PCI di Aversa che fornì sostegno a questi ex partigiani, aiutandoli psicologicamente e materialmente, tessendo una rete di relazioni e intrattenendo una fitta corrispondenza con parlamentari delle forze di sinistra. Il libro deve molto ai documenti che lui ha avuto cura di conservare per tutti questi anni.

    Penso che anche l’ingratitudine e l’irriconoscenza riservate ai protagonisti di queste storie siano parte integrante della narrazione della Resistenza o perlomeno della storia di come questa è stata recepita nell’Italia repubblicana, una storia che, oscillando tra denigrazione e agiografia, per intero, non è ancora stata scritta. A mio parere, lo studio di Franzinelli e Graziano a questa storia aggiunge un tassello, importante, colmando, anche, una lacuna storiografica.

    Ciao a tutti,
    Mariangela

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  4. Avatar Mariangela
    Mariangela

    @Tutti @LuigiGavazzi
    I percorsi di lettura sono talvolta tortuosi, non ordinati, vanno un po’ per conto loro: sistematicità avrebbe voluto che affrontassi innanzitutto “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza”, citato nell’articolo e ormai ritenuto fondamentale sull’argomento, invece, al caposaldo bibliografico di Pavone mi sto avvicinando, come dire, per tappe successive, quasi a ritroso, partendo da altre letture e guidata da altri autori. Quello di fare di testa propria è proprio il bello della lettura.

    Un ulteriore passo verso il libro di Pavone l’ho fatto accompagnata da David Bidussa che ha recentemente raccolto alcuni scritti di Claudio Pavone e di Norberto Bobbio proprio sul concetto di Resistenza intesa, anche, come guerra civile:

    • Norberto Bobbio, Claudio Pavone, “Sulla guerra civile. La Resistenza a due voci”, a cura di David Bidussa, Bollati Boringhieri, 2015.

    Gli articoli del libro dimostrano che entrambi gli intellettuali hanno sostenuto a più riprese durante la loro pluridecennale attività di studiosi che nella Resistenza sono confluite tre guerre: quella patriottica, contro l’invasore, quella civile, che ha registrato la lotta fratricida tra italiani e quella di classe, che si proponeva un assetto sociale più equo.

    Mi è stato utile leggere queste pagine perché dimostrano che sia Pavone che Bobbio hanno contribuito a strappare la Resistenza dall’ambito del mito per restituirla a quello dello riflessione storica. Entrambi gli studiosi, infatti, colsero l’occasione sorta dalle contestazioni giovanili del ’68 per affermare che la Resistenza doveva essere oggetto di studio e non solo delle celebrazioni ufficiali. Questo me li fa apprezzare in modo particolare perché sono convinta che le agiografie e le santificazioni non aiutino a capire e si prestino a strumentalizzazioni ancora più distorcenti.

    Saluti,
    Mariangela

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  5. Avatar Mariangela
    Mariangela

    @tutti @Luigi Gavazzi
    Sono andata a riprendermi un libro letto anni fa perché ricordavo che tra i tanti argomenti (tutti trattati con rigore e chiarezza) affronta anche la questione della ricezione della Resistenza nella storiografia repubblicana e nella memoria collettiva. Mi è stato utile per capire perché il libro di Pavone abbia marcato una linea di rottura con gli studi precedenti e abbia suscitato tante polemiche. Si tratta di un bel libro di Aldo Giannuli.

    Nei decenni immediatamente successivi alla fine della guerra, tanto gli uomini di cultura quanto le parti politiche si trovarono a fare i conti con il recente passato. Che alla Resistenza avesse partecipato, unito nella lotta contro l’invasore, tutto il popolo italiano, era tesi sostenuta unanimemente dalla storiografia quanto dalle parti politiche. Non si sottraeva a questa versione neppure il PCI che, anzi, immemore dell’insegnamento di Gramsci, era forse il più strenuo sostenitore dell’equiparazione della Resistenza a una sorta di “Secondo Risorgimento”.

    Giannuli spiega bene il perché di questa scelta: per legittimare la repubblica appena nata (peraltro con scarsissimo scarto), era necessario fondare un’identità nazionale e perché questo fosse possibile si rendeva necessario espungere il fascismo dalla storia italiana, farlo apparire come un incidente di percorso e, soprattutto, dimostrare che il fascismo non aveva mai goduto del consenso popolare. A queste motivazioni, spiega l’autore, si aggiungeva il fatto che anche a Togliatti, non privo di opportunismo politico, la tesi più semplicistica (quella dell’unità del popolo italiano contro il nemico teutonico) tornava comoda per giustificare la legittimazione del PCI nell’arco costituzionale.

    (Aldo Giannuli, “L’abuso pubblico della storia. Come e perché il potere politico falsifica il passato”, Guanda, 2009. pp. 265/268).

    Recependo alcune istanze della contestazione giovanile del ’68, gli studi di Pavone, confluiti poi in “Una guerra civile” del 1991, ma iniziati ben prima della sua pubblicazione, misero in crisi l’interpretazione, diciamo così, mondata della Resistenza. Era poi vero che a sostenere l’occupante germanico fu solo un manipolo di collaborazionisti? Si poteva seriamente continuare a sostenere che la stragrande maggioranza degli italiani non avesse accordato il proprio sostegno al regime fascista? Era storiograficamente corretto dipingere un antifascismo di massa retrodatandolo addirittura agli anni del regime? Infine, e questa è la domanda ultima a cui Pavone ha dato risposta col suo libro: era scientificamente corretto negare che in quei venti mesi gli italiani fossero coinvolti in una sanguinosa guerra civile che vide gli uni contro gli altri?

    So che il libro di Pavone fece scalpore, oltre che per i contenuti, anche a causa di un’astuzia dell’editore che antepose il sottotitolo “una guerra civile” a quello che nell’intenzione dell’autore doveva essere il titolo “Saggio storico sulla moralità della Resistenza”. Ho recentemente appreso, inoltre, che in alcune sedi dell’INSMLI fu volutamente ignorato; secondo l’interpretazione di allora, parlare di guerra civile significava mettere sullo stesso piano le due parti del conflitto e riconoscere ad entrambe pari legittimazione e uguale dignità. Oggi, il testo di Pavore è considerato fondamentale per chi voglia capire la recente storia patria.

    Quello di Pavone è un libro che non merita di essere considerato in un momento non propizio, devo, ancora una volta, rimandarlo a momenti di maggiore disponibilità di tempo. Intanto, continuo, per altre vie, cautamente, l’avvicinamento alla preda.

    Ciao
    Mariangela

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  6. Avatar Mariangela
    Mariangela

    @Tutti @Luigi Gavazzi
    A proposito di Resistenza ho trovato un articolo di Pintor, del 2001, sulla visita del Presidente della Repubblica Ciampi a Cefalonia; non aggiungo nulla di mio, mi limito a copiare:

    • “Ora è motivo di compiacimento che il presidente Ciampi vada ad onorare quei caduti e quel luogo, dove è stata scritta la prima pagina (dopo Porta San Paolo) della Resistenza. Una pagina anomala e dimenticata perché, secondo Indro Montanelli, è stata scritta da soldati in divisa sotto le bandiere del regio esercito e in fedeltà alla patria.

    Si rivolterebbero nella tomba quei caduti, se ne avessero una e se leggessero i giornali. Non avevano più bandiere, non avevano più un esercito, non avevano più una patria: questi simboli, che li avevano mandati a morire, si erano dileguati lasciandoli soli. Il loro re, i loro alti comandi, il loro stato, erano disertori e imboscati. Qualcuno era nascosto lì vicino, a Brindisi, a due braccia di mare: moralmente morto senza aver combattuto.
    (…)
    Cefalonia è stata dimenticata, perché è un monumento al fallimento storico e all’ignavia, oltreché di simili personaggi o di una casa regnante o di un regime politico, di un’intera classe dirigente. Ed è uno spartiacque insormontabile tra un prima e un dopo. È questa cesura storica che non si è mai voluta ammettere, ma che nessun revisionismo mi farà mai dimenticare. Con questo spirito accompagno modestamente Ciampi nella sua visita. Se invece vogliamo ristabilire una continuità ho una proposta: possiamo traslare la salma regale nell’ossario dell’isola come se fosse lì dal 1943.”

    (Luigi Pintor, “Politicamente scorretto. Cronache di un quinquennio. 1996/2001” Bollati Boringhieri, 2001, pp, 261/262, già pubblicato su “Il Manifesto” il 2 marzo 2001)

    Nell’altro articolo avevo scritto che Pintor mi piace di più come memorialista che come editorialista, ed è legittimo, è una questione di stile, di gusti, ma questo non toglie che sia stato un grande giornalista e che i suoi articoli, ancora attuali, meritino di essere riletti.

    Ciao a tutti,
    Mariangela

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  7. Avatar Mariangela
    Mariangela

    @tutti
    Oggi, 25 aprile, ricorrenza della Liberazione, mi viene in mente un libro sulla Resistenza che analizza un aspetto della lotta resistenziale per molti anni sottaciuto e poco studiato:

    • Santo Peli, “Storie di GAP. Terrorismo urbano e resistenza”, Einaudi, 2014.

    L’immaginario collettivo è abituato ad ubicare le azioni resistenziali in montagna, in luoghi impervi ed isolati, ma Santo Peli in questo libro ci parla dei GAP (Gruppi d’Azione Patriottica), concepiti e organizzati per la lotta armata nelle città.

    Per fare comprendere al lettore gli obiettivi e la ragion d’essere dei GAP, l’autore illustra la situazione nei centri urbani subito dopo l’8 settembre. Nelle città l’occupante tedesco, interessato com’era alla produzione industriale, non mostrò subito il proprio volto feroce, come invece era successo nelle vallate alpine. Nelle grandi città si ignoravano gli atti di violenza che l’occupante stava perpetrando nel resto del paese (rastrellamenti, deportazioni, incursione nel ghetto di Roma nell’ottobre del 1943). Gli attentati dei GAP erano finalizzati a sollecitare una reazione da parte dell’occupante tedesco; erano azioni che dovevano fare percepire la gravità dell’occupazione nazifascista alla popolazione ed evitare la sua assuefazione allo status quo.

    Per molti decenni si è preferito non studiare l’azione dei GAP. Anche il PCI, che dei GAP era stato fautore e sostenitore, dopo la scelta di Salerno preferì appoggiare la tesi della Resistenza unitaria, quella che la voleva inquadrare come secondo Risorgimento. Non è un caso che spesso i GAP siano stati utilizzati per denigrare la Resistenza: quando un tema non viene studiato è più facile che forze manipolatrici possano farlo proprio.

    Io trovo che questo libro contribuisca alla causa della Resistenza proprio perché analizza con coraggio un aspetto scabroso di cui oggi è scomodo parlare. Trovo che sia più facile scrivere di Resistenza quando oggetto dell’analisi sono gli attacchi partigiani condotti in montagna contro colonne tedesche (che seminavano terrore e morte) che non studiare, come fa Santo Peli in questo libro, quelle forme di lotta resistenziale urbana che si traducevano in agguati a sorpresa, di cui poteva rimanere vittima anche chi al nazifascismo era estraneo.

    Il gappismo cittadino, con tutto il suo carico di devastazione e morte, fu dolorosamente necessario; parlarne oggi può urtare la nostra sensibilità, ma penso avesse ragione Claudio Pavone: solo con nuovi studi ed esplorando ambiti nuovi si può resistere al revisionismo.

    Ciao a tutti,
    Mariangela

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  8. Avatar Mariangela
    Mariangela

    @tutti
    Oggi ricorre il 73° anniversario dell’eccidio di Piazzale Loreto:

    Andrea Esposito
    Andrea Ragni
    Angelo Poletti
    Domenico Fiorani
    Emidio Mastrodomenico
    Eraldo Soncini
    Gian Antonio Bravin
    Giulio Casiraghi
    Libero Temolo
    Renzo Del Riccio
    Salvatore Principato
    Tullio Galimberti
    Umberto Fogagnolo
    Vitale Vertemati
    Vittorio Gasparini

    Onore alla loro memoria.

    Mariangela

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  9. Avatar Mariangela
    Mariangela

    Nel 2016 avevo riportato, qui, pensieri tratti da un articolo di Pintor sui fatti di Cefalonia; di quell’avvenimento è ricorso nel 2018 il 75° anniversario e ho trovato questo libro che trovo innovativo rispetto alla precedente storiografia:

    ► Elena Aga Rossi, “Cefalonia: la resistenza, l’eccidio, il mito”, Il Mulino, 2016, 252 p.

    Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, nell’isola di Cefalonia le truppe italiane e tedesche si scontrarono in un combattimento che si protrasse per molti giorni. Cessato lo scontro, per ordine dello stesso governo tedesco, molti soldati italiani, che già si erano arresi, furono fucilati dai tedeschi in un eccidio di massa.

    Il libro di Elena Aga Rossi non è in linea con quanto su Cefalonia avevo appreso dai manuali e ancor meno con quanto si continua a ripetere durante le celebrazioni ufficiali: fu veramente, come ci ha raccontato la storiografia per molti decenni, un atto di resistenza antifascista? Perché i dati riferiti al numero delle vittime sono sempre stati macroscopicamente sovrastimati? Perché tante resistenze a ricondurli alla vera entità secondo criteri più seri e obiettivi? E ancora, quale giudizio dare sui protagonisti? Pur considerando le insidie degli stralci, voglio lasciar parlare l’autrice:

    “È probabile che la vicinanza dell’Italia e la speranza nell’arrivo di aiuti da parte degli anglo-americani abbiano avuto un ruolo essenziale nel convincere una parte della divisione che, combattendo i tedeschi, sarebbe tornati a casa prima che se avessero accettato di arrendersi. (…) È difficile, invece, vedere nell’azione della truppa la motivazioni antifascista, presente soltanto in pochi militari che provenivano da famiglia contrarie al regime, come nel caso di Pampaloni” (p. 122)

    Il libro sfoltisce la retorica, e fa chiarezza rispetto a tante manipolazioni che l’evento ha subito, ma all’importanza e alla drammaticità di quell’accaduto non toglie nulla. L’uccisione dei militari italiani che già si erano arresi – l’autrice lo scrive subito in apertura del suo saggio – “è stata la manifestazione più criminale e violenta del desiderio di vendetta per il cosiddetto “tradimento” dell’Italia” e – lo afferma in chiusura del libro – bisogna ricordarsi che salvo altri pochissimi casi di minor importanza, Cefalonia rimane “l’unica battaglia nei Balcani in cui truppe regolari italiane e tedesche si fronteggiarono in campo aperto, per una settimana, in uno scontro “difficile e violento””

    Mariangela

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