Allora, c’è questo mio amico Paolo che adesso vive in Argentina e un giorno mi ha confessato di essere felice perché ha incontrato un tale, Tommaso Daiton, che è stato per un po’ il barista che preparava il caffè a Hebe Uhart.
Allora l’ho chiamato al telefono con whatsapp e gli ho chiesto chi è questa Hebe Uhart. Lui mi ha spiegato che è una scrittrice argentina, anzi che era una scrittrice, perché è morta nel 2018, e che pensava che io la conoscessi eccetera.
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Hebe Uhart era già morta quando il mio amico ha conosciuto il suo barista, il signor Daiton, un tipo giovanile, con la camicia bianca sotto un giaccone di camoscio, i capelli pettinati indietro come nessun li porta più nemmeno laggiù.
Al lago dove lui dice di essere andato a vivere, al sud, il lago Cardiel, il mio amico dice che anche se mi sembrerà strano, su quel lago si incontrano persone famose.
Il barista di questa signora Uhart è andato al Cardiel, qualche anno dopo la morte della scrittrice. Secondo il mio amico, il barista è andato lì proprio perché la signora Hebe gli parlava sempre di quel lago.
La signora Hebe Uhart, ad ogni modo, in Argentina è piuttosto famosa. Scriveva romanzi e tanti tanti racconti brevi, “in apparenza semplici”, mi ha detto il mio amico. In molti la giudicano una delle migliori scrittrici di racconti, non meno di Ocampo, Borges, Bioy Casares, Cortàzar.
A un certo momento, ha detto Paolo, Uhart ha preso a viaggiare in posti strani e apparentemente senza attrazioni, in tutta l’Argentina, ma anche in Cile e un paio di volte, secondo il barista, andò anche laggiù sul lago Cardiel, dove adesso vive Paolo. Il barista ha detto a Paolo che dovrebbe leggere tutte le crónicas di Uhart per capire l’Argentina, visto che adesso viveva lì.
Ho scoperto in italia che ci sono vari libri tradotti di Uhart: per esempio Turismo urbano (tradotto da Maria Nicola per l’editore Calabuig nel 2016), Un giorno qualunque (traduzione di Giulia Di Filippo, editore La Nuova Frontiera, 2023). Quest’ultimo raccoglie ventiquattro racconti. Il racconto “Dal parrucchiere” comincia così:
«Il parrucchiere mi sembra un posto così separato dal resto del mondo, così distante, come il cinema per esempio. Così distante che quando sono lì e mi annoio penso al bar all’angolo, dove vado sempre, e con i capelli pieni di quella pece che usano per tingerli penso: “Voglio andare a prendere un caffè, con tanto di mantella addosso e capelli impiastricciati”. Fortunatamente per la mia reputazione, subito dopo immagino il caffè lontanissimo e irraggiungibile, quanto un viaggio a Chascomús.»
Secondo Paolo il bar di cui parla la narratrice in questo racconto potrebbe essere quello del barista che ha incontrato sulla panchina sul lago Cardiel. Ad ogni modo, Paolo dice che la scrittura di Uhart (il cognome arriva dal padre di origini basche, mentre la madre era di provenienza italiana) è un singolare e delizioso – ma a volte urticante perché certo non indulge in sentimentalismi e non risparmia qualche durezza – miscuglio di straniamento, punto di vista ingenuo e obliquo, personaggi indimenticabili. Così ha detto Paolo al telefono, gli ho creduto e leggo con parsimonia, un racconto a settimana, le storie di Un giorno qualunque.

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