Il gruppo di lettura Grandi libri discuterà di Rayuela. Il gioco del mondo di Julio Cortázar (Einaudi).
Gli incontri saranno:
- 10 settembre 2025 ore 20:45 alla Biblioteca Sormani a Milano per chi vuole e può venire.
- 11 settembre 2025 ore 20:45 online su Zoom per chi non può venire in biblioteca
- (ovviamente sono benvenute e benvenuti coloro che vogliono partecipare a entrambe le discussioni)
- La partecipazione in Biblioteca il 10 settembre è libera e aperta a tutti. Per partecipare su Zoom l’11 settembre bisogna essere iscritti alla lista e riceverete le credenziali.
Qui trovate un po’ di informazioni e ragionamenti su Rayuela e su Cortázar (li aggiungo via via che vengono pubblicati sul Substack ufficiale del gruppo di lettura Grandi libri):
2 settembre 2025
Da qualche giorno ricevo le parole di lettrici e lettori che mi avvertono: «Non riuscirò a finire Rayuela in tempo per l’incontro del gruppo di lettura Grandi libri» (10 settembre Biblioteca Sormani a Milano, o dell’11 settembre su Zoom).
A chi non riuscirà a finirlo in tempo (o non l’ha nemmeno cominciato) dico solo: Vi prego di venire comunque in Biblioteca (o di collegarvi con Zoom), qualsiasi sia la pagina alla quale avete deciso di chiudere, più o meno definitivamente, Rayuela.
Perché le interruzioni, i rinvii, gli abbandoni, la fretta frustrata di finire la lettura del libro, la confusione, la noia, la mancanza di tempo, il rifiuto, il disinteresse, la nostalgia per una trama più o meno chiara e lineare, sono ovviamente parte del leggere che ci interessa. Nel gruppo è ovviamente successo più volte in passato e credo succederà ancora che si incespichi, si scivoli, ci si incastri da qualche parte durante la lettura. E succede con ogni tipo di romanzo, non solo con quelli dalle ambizioni scompaginate come Rayuela.
Anni fa, per esempio, io mi ritrovai a confessare al gruppo – si fa per dire confessare, erano i tempi lividi del Covid e il gruppo esisteva solo sulla rete – mi ritrovai a confessare di aver interrotto la lettura di Il conte di Montecristo, e credo che la discussione risultasse arricchita da questa confessione: persino un romanzo come quello di Alexandre Dumas può respingere i lettori come qualsiasi altro romanzo. La faccenda interessante è l’insieme delle esperienze che ci portano fin lì, fino all’interruzione, all’abbandono.
Quindi, per farla breve, vi prego, anche se avete abbandonato Rayuela, se lo avete affrontato in ritardo, se vi siete irritati, se non l’avete nemmeno aperto: venite a parlarcene.
(E sono orgoglioso di non esser scivolato fino alla citazione di I diritti del lettore proclamati da Pennac).
Qui il ricordo di Cortázar scritto da Gabriel Garcia Márquez nel 1984 poco dopo la morte dello scrittore argentino:
Gabriel Garcia Márquez su Julio Cortázar
L’Argentino che si è fatto amare da tutti –
L’ultima volta che sono stato a Praga è stato quindici anni fa, con Carlos Fuentes e Julio Cortázar. Viaggiavamo in treno da Parigi perché tutti e tre eravamo solidali nella nostra paura dell’aereo e abbiamo parlato di tutto mentre trascorrevamo la notte divisa delle due Germanie, dei loro oceani di barbabietola, delle loro immense fabbriche di ogni cosa, delle loro rovine di guerre atroci e di amori violenti.
All’ora di dormire, a Carlos Fuentes gli venne in mente di domandare a Cortázar perchè e in che momento e per decisione di chi era stato introdotto il pianoforte nell’orchestra di jazz. La domanda era casuale e non aveva la pretesa di conoscere né una data precisa né un dato nome, ma la risposta divenne un argomento abbagliante che si prolungò fino all’alba, tra enormi bicchieri di birra e wusterls con patate fritte. Cortázar, che sapeva utilizzare bene le sue parole, ci fece una ricostruzione storica ed estetica con una versatilità ed una semplicità incredibili, che culminò con le prime luci del mattino in una omerica apologia di Thelonius Monk. Non solo parlava con una voce profonda da organo dalle erre strascicata, ma anche con le mani dalla grande corporatura come non ne ricordo altre più espressive. Né Carlos Fuentes né io dimenticheremo mai lo stupore di quella notte irrepetibile.
Dodici anni dopo ho visto Julio Cortázar davanti una folla in un parco di Managua, senza altra arma che la sua bella voce e uno dei più difficili dei suoi racconti: La notte di Mantequilla Nápoles. È la storia di un pugile caduto in disgrazia, raccontata da lui stesso nel gergo malavitoso, il dialetto dei bassifondi di Buenos Aires, la cui completa comprensione a noi comuni mortali ci sarebbe stata vietata se non l’avessimo intravista attraverso un tale furfante; tuttavia fu questo il racconto che lo stesso Cortázar aveva scelto di leggere su una pedana davanti la folla di un vasto giardino illuminato, tra cui c’era di tutto, da poeti famosi e muratori disoccupati, fino a comandanti della rivoluzione ed i loro oppositori. Questa è stata un’altra esperienza abbagliante. Sebbene non fosse facile seguire attentamente il senso del racconto, anche per i più allenati al gergo malavitoso, uno sentiva e soffriva per i colpi che riceveva Mantequilla Nápoles nella solitudine del quadrilatero, e faceva venire voglia di piangere per le sue illusioni e la sua miseria, poiché Cortázar aveva raggiunto una comunicazione così stretta con il suo uditorio che ormai non importava a nessuno quello che volevano o non volevano dire le parole, poiché la folla seduta sul prato sembrava lievitare in un stato di grazia grazie alla magia di una voce che non sembrava appartenere a questo mondo.
Questi due ricordi di Cortázar, che tanto mi hanno impressionato, mi sembrano anche quelli che meglio lo definiscono. Erano i due estremi della sua personalità. In privato, come sul treno per Praga, riusciva a sedurre per la sua eloquenza, per la sua viva erudizione, per la sua memoria millimetrica, per il suo humor pericoloso, per tutto ciò che lo ha reso un intellettuale tra i grandi nel senso antico della parola. In pubblico, nonostante la sua reticenza a trasformarlo in uno spettacolo, affascinava l’auditorio con una presenza inevitabile che aveva qualcosa di soprannaturale, e allo stesso tempo era tenera e stravagante. In ogni caso è stato l’essere umano più importante che ho avuto la fortuna di conoscere.
Dal primo momento, alla fine del triste autunno del 1956, in un caffè di Parigi con nome inglese, dove lui era solito andare ogni tanto, per scrivere ad un tavolo messo in un angolo, come faceva anche Jean-Paul-Sartre a trecento metri più in là, su di un quaderno scolastico e con una penna che gli macchiava le dita. Io avevo letto Bestiario, il suo primo libro di racconti, in un hotel economico a Barranquilla dove dormivo al costo di un peso e cinquanta, tra malviventi malpagati e puttane felici, e sin dalla prima pagina mi resi conto che quello era uno scrittore come avrei voluto essere io da grande. Qualcuno a Parigi mi disse che lui scriveva nel Caffè Old Navy, nel boulevard Saint Germain, e lì lo ho aspettato varie settimane, fino a quando l’ho visto entrare come in una apparizione. Era l’uomo più alto che si potesse immaginare, con la faccia da bambino pervertito dentro un enorme cappotto nero che sembrava più la veste di un prete, e aveva gli occhi molto distanziati, come quelli di un vitello, e tanto obliqui e diafani che avrebbero potuto essere quelli del diavolo se non fossero stati sottomessi al dominio del cuore.
Anni dopo, quando eravamo già vecchi amici, ho creduto di vederlo di nuovo come lo vidi quel giorno, poiché mi sembra che si sia ricreato in uno dei suoi migliori racconti- L’altro cielo-, nel personaggio di un latinoamericano senza nome che assisteva, per pura curiosità, alle esecuzioni di ghigliottina. Come se lo facesse davanti ad uno specchio. Cortázar lo descrisse così: “ Aveva un’espressione distante e, allo stesso tempo, curiosamente intenta. La faccia di qualcuno che si è ritrovato immobile in un momento del suo sogno e si rifiuta di fare il passo che lo riporterà al dormiveglia.” Il suo personaggio era avvolto in una veste nera e lunga, come lo stesso cappotto di Cortázar quando lo vidi la prima volta, ma il narratore non si azzardava ad avvicinarsi per chiedergli la sua origine, per timore di svegliare la fredda collera con cui lui stesso avrebbe ricevuto una simile domanda. La cosa strana è che neppure io mi ero azzardato ad avvicinarmi a Cortázar quel pomeriggio all’ Old Navy, e per lo stesso timore. Lo guardai scrivere per più di un’ ora, senza neanche una pausa per pensare, senza prendere nient’altro che un bicchiere di acqua, fino a quando cominciò a farsi buio in strada e mise la penna nella tasca e uscì con il quaderno sotto braccio come lo scolare più alto e più magro del mondo.
Nelle svariate volte che ci siamo incontrati anni dopo, l’unica cosa che era cambiata in lui era la barba spessa e scura, poiché da appena due settimane sembrava vera la leggenda che lo riteneva immortale, perché non aveva mai smesso di crescere e fisicamente si era sempre mantenuto come all’età della sua nascita.
Non mi sono mai permesso di chiedergli se era vero, come non gli ho mai raccontato che nel triste autunno del 1956 lo avevo visto, senza azzardarmi a dirgli niente, nel suo angolo dell’Old Navy, e so che ovunque sia ora starà prendendomi in giro per la mia timidezza.
Gli idoli infondono rispetto, ammirazione, affetto e, sicuramente, grande invidia. Cortázar inspirava tutti questi sentimenti come pochi altri scrittori, ma ne inspirava anche un altro meno frequente: la devozione. È stato, forse senza proporselo, l’argentino che si è fatto amare da tutti. Tuttavia, oso pensare che se i morti muoiono, Cortázar forse sta nuovamente morendo per il dolore mondiale che ha causato la sua scomparsa. Nessuno temeva più di lui, né nella realtà né sui libri, gli onori postumi e i fasti funerari.
Inoltre: ho sempre pensato che la morte stessa gli sembrava inconcepibile. In qualche parte del “Giro del mondo in ottanta giorni”, un gruppo di amici non riesce a trattenere le risa davanti l’evidenza che un amico comune sia caduto nella ridicolezza della morte. Per questo, perché l’ho conosciuto e gli ho voluto tanto bene, mi esento dal partecipare ai lamenti e alle elegie in memoria Julio Cortázar. Preferisco continuare a pensarlo come, sicuramente, lui avrebbe voluto, con l’immensa felicità che sia esistito, con l’indescrivibile allegria di averlo conosciuto, e la gratitudine che abbia lasciato al mondo intero un’opera forse incompiuta ma così bella e indistruttibile come quella del suo ricordo.
(Dal Manuale di cronopi, Francisco J. Uriz, Ed. de la Torre, 1992; traduzione di Samanta Catastini)
28 agosto 2025
Visto che continuiamo ad avere fiducia nella lettura come strumento per osservare il mondo e soprattutto per interrogarci anche sulle assurde e terribili cose (azioni, parole, discorsi), che ci circondano, vi propongo un breve montaggio1 con riflessioni direttamente o indirettamente connesse al nostro Cortázar.
«Una serie di fattori ha fatto sì che Rayuela fosse visto non come un romanzo, ma come una specie di laboratorio mentale, nel quale il lettore giovane si trovava poco a poco a che fare con diversi problemi che, bruscamente, riconosceva come suoi, ma che lui non aveva mai formulato. Sarebbe stato un errore da parte mia cercare di dare delle soluzioni. Io stesso ero incapace di trovare una soluzione.», Julio Cortázar., 1985
«A ciò si può aggiungere l’idea che il libro, in un certo senso, si commenta da solo o si autodiscute. Atteggiamento piuttosto giovanile, poiché è una caratteristica dei giovani discutere continuamente quello che stanno facendo. E il libro, nei capitoli in cui appare Morelli, si discute apertamente, e addirittura si confuta. Si rivolge perpetuamente delle domande: come si deve scrivere, come si deve affrontare un tema, se la tal cosa è fatta bene, se è fatta male, progetta romanzi che poi non verranno scritti. Oppure sì, come nel caso di Componibile 622», Omar Perego, 1985
«È un tentativo di ricominciare da zero sul piano del linguaggio. Sì, certo, mi sono servito del linguaggio come qualsiasi altro scrittore, però nel romanzo c’è una ricerca disperata di evitare i luoghi comuni, di eliminare tutto ciò che ancora resta, nella nostra lingua, della eredità del secolo scorso, c’è un continuo riferimento alla scontatezza degli aggettivi.» Julio Cortázar, 1985
«La trama, nel senso in cui si è cercato di definirla, rappresenta l’elemento organizzatore del racconto, la sua “intenzionalità”; e forse andrebbe vista come una forma di attività, un’operazione strutturante suscitata nel lettore quando quest’ultimo cerca di ricavare un senso dagli eventi che si sviluppano attraverso una successione testuale e temporale. Fa dunque parte della “competenza” del lettore, e nel suo “adempimento”, l’atto della lettura, dà vita alla produzione di senso; è infatti una componente chiave di quella “passione del (per il) senso” che come dice Barthes ci infiamma man mano che leggiamo. Possiamo, in breve, concepire la lettura in funzione della trama come una forma di desiderio che ci spinge avanti», Peter Brooks, Trame.
5 agosto 2025
Non so se qualcuno pensi che questo sia davvero un “antiromanzo”, come più o meno viene definito da quasi tutti coloro che si sono trovati a scriverne qualcosa. Bisogna dire che lo stesso Cortázar lo chiamava, programmaticamente, antiromanzo. Si veda per esempio la lettera a Jean Barnabé del 1959 quando ancora stava lavorando al progetto. Confronta i suoi racconti – «un racconto è una struttura, un sistema chiuso e perfetto» – con il romanzo che ha per le mani, «dove si tratta di addentrarsi nel laboratorio centrale e lavorare, se ne ho la forza, alla radice che prescinde da ogni ordine e sistema […] Insomma, […] rinuncio a un mondo estetico per tentare di penetrare in un mondo poetico».
Leggi anche: I libri più belli, letti nel 2025 (aggiornamento 9 agosto)
In un altro ragionamento, parecchi anni dopo l’uscita di Rayuela (e dopo il successo che ha incontrato, specie tra i lettori giovani), Cortázar dice che l’idea della doppia lettura possibile – i capitoli nell’ordine in cui si trovano nelle pagine e poi la lettura a partire dal capitolo 73 (73, 1, 2, 116…), seguendo una sequenza diversa, indicata dallo scrittore stesso – gli è venuta quando il libro era finito. Insomma non c’è una struttura prestabilita, confessa Cortázar, le strutture che i critici hanno individuato hanno preso vita solo dopo, alla fine. «Solo quando mi sono ritrovato con tutti i fogli di Rayuela sul tavolo, ovvero con quella enorme quantità di capitoli e di frammenti, ho sentito il bisogno di metterli in ordine. Ma quell’ordine non era dentro di me prima e durante la stesura di Rayuela.» [Dialogo fra Cortázar e Omar Perego]
Nella lettera a Barnabé già citata, Cortázar dice: «Credo però che la realtà quotidiana in cui viviamo non sia che il margine di una favolosa realtà che è possibile riconquistare e che il romanzo, – come la poesia, l’amore, l’azione, – debba proporsi di penetrare tale realtà.» [Se ne parla anche nell’articolo che trovate qui sotto]
Ecco, affiancherei, mentre leggiamo Rayuela, il pensiero di Cortázar (anche quello scritto – idealmente – sui margini delle pagine), al noto incipit di Peter Brooks nel suo Trame:
«Le nostre vite sono incessantemente intrecciate alle narrazioni, alle storie che raccontiamo o che ci vengono raccontate, a quelle che sogniamo o immaginiamo o vorremmo poter narrare; e tutte vengono rielaborate nella storia della nostra vita, che noi raccontiamo a noi stessi in un lungo monologo – episodico, spesso inconsapevole, ma virtualmente ininterrotto. Noi viviamo immersi nelle narrazioni, ripensando e soppesando il senso delle nostre azioni passate, anticipando i risultati di quelle progettate per il futuro, e collocandoci nel punto di intersezione di varie vicende non ancora completate».
Siamo un po’ tutti Horacio Oliveira, no? Però vorremmo essere Cortázar, consapevoli di non aver progettato nulla ma fiduciosi di trovare, a un certo momento, un senso, anzi più d’uno. Almeno due: il che, come raccomanda Cortázar, significa almeno leggere tutti i capitoli o anche inventarsi un altro senso.
Ovviamente non mi è facile parlare di questo libro, almeno per ora; vediamo che succede alla fine (della lettura: spero di non dover dire mai che è un antiromanzo).

Quello che segue invece è un articolo di Cecilia Bello Minciacchi, uscito su Il Manifesto, il 26 agosto del 2014, in occasione del centesimo anniversario della nascita di Cortázar. Fa il punto anche su pubblicazioni recenti su e per lo scrittore argentino:
Julio Cortázar e lo sguardo fisso all’invisibile
Il 26 agosto di
cent’anni[centoundici anni] fa nasceva lo scrittore argentino. La sua vocazione più autentica si riassume nell’attitudine a mostrare «l’altro lato delle cose». L’editoria festeggia raccogliendone i racconti e le varie riflessioni metanarrative
«Se, tra le cose che ho scritto, qualcuna è servita per mostrare l’altro lato delle cose ai miei lettori e ai miei amici, è facile intuire che ciò costituirebbe la più grande ricompensa cui possa ambire. Personalmente continuo ad avvertire la presenza di qualcosa che si trova dall’altra parte delle cose, per questo non smetterò mai di cercare». Questa ipotesi augurale, in pronuncia modesta, formulava Julio Cortázar in un’intervista televisiva del 1977. Ora, ad anni di distanza, di fronte al vasto corpo della sua opera, non si può che convenire: ha davvero guadagnato la ricompensa cui ambiva. Scrivere è stato per Cortázar un lavoro di ricerca e di apertura – «aprire la porta per andare a giocare», dice una canzone infantile che amava citare –, un lavoro sempre sorretto dall’inclinazione istintiva a guardare dietro le convinzioni correnti, sotto le norme dell’abitudine: «e il pavimento, questa certezza dei nostri passi, che cosa nasconde sotto il parquet incerato?», chiede il tal Lucas della raccolta di racconti che gli è intitolata.
Di questa domanda, nell’universo cortazariano, più che il risvolto dell’inquietudine, dello sgomento che potrebbe far vacillare il nostro equilibrio, conta la messa in questione pura. Conta la domanda sull’oltre, su ciò che c’è al di là, nell’impressione ineliminabile che sia parte costitutiva del nostro qui e ora, della nostra storia. La prima vocazione di Cortázar, la più genuina e foriera di conseguenze, è il voler mostrare «l’altro lato delle cose», con tutte le implicazioni che comporta: la presenza del fantastico nel reale, l’humour sorprendente, le letture inconvenzionali dei fatti, il rifiuto di accettare le cose così come appaiono o sono, la crudezza di situazioni politiche durissime e occultate d’improvviso rivelata: luminosa e agghiacciante.
L’altro lato delle cose è il titolo dato all’intervista televisiva del 1977 edita ora in Italia per l’ottima cura di Tommaso Menegazzi (Mimesis, pp. 89, euro 10,00), una delle pubblicazioni che in questi mesi celebrano il centenario dello scrittore argentino, nato a Bruxelles – per caso – il 26 agosto 1914 e morto nel 1984 a Parigi dove si era auto-esiliato quando Peron aveva preso il potere, all’inizio degli anni Cinquanta. Proprio quella lontana intervista, generosa e compatta, ben si offre come viatico a una rilettura delle opere di Cortázar, per i dati biografici esposti in stretta connessione con la sua scrittura stante quel legame tra letteratura e vita che nella sua esperienza ha più volte definito indissolubile: «fra vivere e scrivere non ho mai ammesso una chiara differenza».La parabola di una vita
La rievocazione muove da suggestioni di forme e colori, strane piastrelle policrome, reminiscenze del Parc Güell conosciuto nella primissima infanzia, radice intima della sua ammirazione per Gaudì. Ricorda dove fu bambino e adolescente: Bánfield, un «sobborgo estremo» di Buenos Aires, «con strade non asfaltate» e lattai che portavano il latte a cavallo, illuminazione tanto scarsa da favorire «l’amore e la delinquenza in proporzioni più o meno uguali». Accenna all’abbandono del padre e alle difficoltà economiche, agli studi e agli anni d’insegnamento nelle scuole secondarie in asfittiche cittadine di provincia e nell’Università di Cuyo, che era sorta da poco, era povera e «pagava degli stipendi da fame» ma non badava che i suoi docenti fossero laureati. Procede con la tendenza a una vita solitaria, costellata di pochi amici fraterni, e con le precocissime prove di scrittura, il romanzo «lacrimoso» scritto a nove anni. Poi la pubblicazione sotto pseudonimo, nel 1938, di una raccolta di sonetti «con spiccata tendenza simbolista», Presencia; e la sua disapprovazione per quegli scrittori smaniosi che stampano ancora immaturi, che sono sempre disperatamente alla ricerca di un editore, e la sua opposta, anticommerciale scelta di pubblicare con cautela, senza fretta. Scelta con la quale non stride il confessato rimpianto per la mancata edizione, dovuta a pregiudizi letterari più che politici, di un presago romanzo del 1950 ambientato e dedicato a Buenos Aires sull’orlo della dittatura, L’esame, apparso postumo in Spagna nel 1986 e da noi lo scorso anno (traduzione di Paola Tomasinelli, Voland, 2013).
Particolarmente interessanti sono le osservazioni interpretative e critiche che Cortázar dedica alle sue opere, come la lettura di Los reyes, una sorta di poema (da noi forse poco noto) che rivisita Teseo e il Minotauro, interpretati dall’autore il primo come «perfetto fascista» (non l’antico intrepido eroe ma il garante dell’ordine), e il secondo come la «figura del poeta, dell’uomo libero, diverso, che rappresenta il tipo di uomo che la società, ovvero, il sistema, cerca di rinchiudere immediatamente, a volte in cliniche psichiatriche, altre in labirinti, come in questo caso». In barba al mito, il Minotauro di Cortázar è un eccentrico essere giocoso che non fa alcun male ai suoi prigionieri.
Questo centenario sembra essere l’occasione per offrire al lettore un bel regesto delle riflessioni metanarrative di Cortázar: in libreria non è arrivata solo questa intervista, ma anche il volume delle sue Lezioni di letteratura tenute a Berkeley nel 1980 (prefazione di Ernesto Franco, prologo di Carles Álvarez Garriga, traduzione di Irene Buonafalce, Einaudi, pp. 229, euro 29,00), anch’esso pieno della schietta comunicatività di Cortázar: «libro non scritto ma parlato, magari in jam session, con sottintesa quell’idea di improvvisazione tanto cara al Cortázar musicofilo jazzista», per dirla con Ernesto Franco, che come logica conseguenza invita non tanto a leggere il libro quanto ad ascoltarlo.
Passato appena qualche anno dall’intervista televisiva, mutato l’uditorio e l’architettura delle conversazioni, i nuclei degli argomenti affrontati rimangono gli stessi ma la disamina, come è naturale, si estende e si approfondisce e slitta verso nodi teorici. A partire dalla prima lezione che con notevole limpidità autocritica presenta agli studenti del corso le tre fasi che ha attraversato nel suo cammino di scrittore: estetica, metafisica, storica. Ovvero una fase giovanile signoreggiata da preoccupazioni di tipo poetico-letterario, dal desiderio di «scrivere con lo sguardo fisso a volte su modelli illustri, altre su un ideale di perfezione stilistica molto raffinata»; una fase mediana di inchiesta inaugurata dalle insoddisfazioni che il Johnny Carter del racconto lungo Il persecutore già esprimeva, «un’autoricerca lenta, difficile», fatta di domande esistenziali piene di angoscia su temi psicologici e ontologici, compiuta in due romanzi, Il viaggio premio e Rayuela, con il suo protagonista Horacio Oliveira che s’interroga senza posa e mette in discussione tutto, regole e comportamenti. E poi, a partire dall’esperienza cubana tra il 1959 e il 1961, la fase conclusiva, quella ancora in essere mentre parlava agli studenti: il superamento dell’individualismo, della concentrazione sulla felicità/infelicità di un singolo. Per allargare lo sguardo ai popoli e alla loro storia «bisognava superare un guado: vedere il prossimo non solo come l’individuo o gli individui che uno conosce, bensì vederlo come società intere, popoli, civiltà, insiemi umani».
Queste lezioni confermano quanta naturalezza avesse in dote Cortázar: per ricostruire il suo percorso di scrittore usa lo stesso spontaneo passo con cui fa entrare – ma sarebbe meglio dire svela – il fantastico, la realtà del fantastico, nei suoi racconti, e le tre fasi, ancorché distinguibili, fluidamente e biograficamente sfumano una nell’altra. E tutto si tiene – a guardare le cose d’improvviso e da lontano – anche l’illogicità apparente, e le incongruenze e le fratture del reale. Basta non perdere di vista le suggestioni e i dati, basta raccogliere quelli giusti, significativi, e dotarli magari di un intuitivo accrescimento di senso. Sì che, una notte, come d’improvviso, i materiali eterogenei raccolti e attaccati «distrattamente» sullo stipite di una libreria nella sua casa di Parigi, possono diventare figura unica e farsi leggere legati tutti da un filo rosso, da una linea che «proseguiva, dall’alto fino a terra, sinuosamente, senza una sola interruzione».
Questo modo di interpretare la realtà, di farsene abitare è perfettamente congruente ai suoi tentativi – tra i più convincenti, sia detto – di distinguere teoricamente e praticamente tra racconto e romanzo: il racconto è «una sfera», un equilibrio perfetto, teso e compiuto, un «ordine chiuso»; il romanzo è un «poliedro», una struttura vasta, un «gioco aperto che lascia entrare tutto». Il racconto è «la fotografia», il romanzo «il cinema». O, in termini più letterari, il romanzo è «quella grande lotta che lo scrittore ingaggia con se stesso perché vi è racchiuso tutto un mondo, tutto un universo in cui si dibattono i giochi capitali del destino umano».
Oltre ai romanzi che già tempo sono reperibili, riappaiono ora, nella Biblioteca dei Tascabili Einaudi, i Racconti, (a cura di Ernesto Franco, traduzioni di Stefania Fabri, Ernesto Franco, Cesare Greppi, Vittoria Martinetto, Flaviarosa Nicoletti Rossini, Cecilia Rizzotti, Cesco Vian, pp. 1282, euro 28,00), a vent’anni dall’uscita nella «Biblioteca della Pléiade», arricchiti da Il movente e Torito che avevano visto la luce solo nella prima edizione integrale di Fine del gioco (Einaudi 2003).
L’arco descritto da Casa occupata, che apre l’aurorale Bestiario, fino agli indispensabili materiali delle Appendici, invera le considerazioni, in special modo se si pongono in dialettica i due solidi: le «sfere» con i «poliedri», e tutti e due con le Lezioni in cui legge e commenta le sue pagine di narrativa: le visioni da incubo conseguenza di un grave incidente in moto da cui è nato il racconto La notte supina, la fatalità che irrompe nel quotidiano nell’Idolo delle Cicladi, l’anarchia e l’umorismo dei verdi amichevoli cronopios contro la grigia normatività dei famas, la storicità dei due racconti che non poté pubblicare in Argentina, Apocalissi di Solentiname, con la fantastica apparizione di diapositive che realisticamente documentavano massacri, e Seconda volta, scritto quando iniziavano le «forme più sinistre della repressione, le sparizioni».
Gli occhi sulla nuca
Ricco di pubblicazioni, questo centenario induce a riflettere su molte cose: «idea positiva» dell’esilio, diffidenza per i puri giochi intellettualistici in tempi di catastrofe (addirittura per La disparition di Perec) e diffidenza per una letteratura solo impegnata, costanza nell’uso della lingua spagnola (già una forma di lotta), e singolari vie d’accesso al reale e alla storia: «stato di distrazione», percettività vibratile, occupazioni insolite, rottura degli schemi, grazia ludica, provocazione del lettore, si pensi ai libri-almanacco, al contro-romanzo Rayuela, a Libro di Manuel, a Fantomas. Con questi mezzi, Cortázar, cui Tabucchi riconosceva «occhi sulla nuca» per cogliere l’altrove, si ribadisce intanto «Latinoamericano scrittore» più che scrittore Latinoamericano, e poi senz’altro «più realista dei realisti» nella sua visione dilatata della realtà e nelle tre fasi del suo esemplare percorso di scrittore: «dall’io al tu al noi».
https://ilmanifesto.it/julio-cortazar-e-lo-sguardo-fisso-allinvisibile
- Come ha scritto Hans Magnus Enzensberger a proposito del suo (bellissimo) libro dedicato alle testimonianze sulla vita di Marx e Engels, «Il montaggio è considerato una tecnica della letteratura di avanguardia del Novecento. È un pregiudizio: sin dal secolo precedente eruditi tedeschi non certo in vena di modernità utilizzarono questa tecnica, senza pensare affatto, naturalmentem alle implicazioni teorico-letterarie dle loro modo di lavorare.», Hans Magnus Enzensberger (a cura di), Colloqui con Marx e Engels, Feltrinelli. ↩︎
- «Pubblicato per la prima volta nel 1968, Componibile 62 nasce dal seme di quel gioco del mondo che ha reso Julio Cortázar l’immortale autore che conosciamo: nel capitolo 62 di Rayuela, l’indimenticabile Morelli – alter ego dell’autore – immaginava un libro in cui il lettore diventasse parte attiva della storia, portando la letteratura alle sue estreme conseguenze. Un libro che poi lo stesso Cortázar scrisse infrangendo le tradizionali concezioni del tempo e dello spazio narrativo, un libro componibile – Componibile 62, appunto – in cui i capitoli si dissolvono e i segmenti che compongono la trama possono essere montati e rimontati come i pezzi di un Meccano. Una storia dai tratti gotici, caleidoscopica e multiforme, in cui l’azione può trascorrere simultaneamente in un ristorante di Parigi, in un museo di Londra o in un albergo di Vienna, e i personaggi passano senza sforzo dal dialogo al monologo, in una continua ricerca di alternative esistenziali e letterarie, fra castelli sanguinanti, vampiri e città immaginate.» [Julio Cortázar, Componibile 62, la quarta di copertina dell’edizione Sur, 2022]. ↩︎
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