Una vernice è una sostanza instabile per definizione: infatti, a un certo punto della sua carriera, da liquida deve diventare solida. È necessario che questo avvenga al momento e nel luogo giusto. Il caso opposto può essere sgradevole o drammatico: può avvenire che una vernice solidifichi (noi diciamo brutalmente «parta») durante il soggiorno a magazzino, e allora la merce va buttata; o che solidifichi la resina di base durante la sintesi, in un reattore da dieci o venti tonnellate, il che può volgere al tragico; o invece, che la vernice non solidifichi affatto, neppure dopo l’applicazione, e allora ci si fa ridere dietro, perché una vernice che non «asciuga» è come un fucile che non spara o un toro che non ingravida.
Al processo di solidificazione prende parte in molti casi l’ossigeno dell’aria. Fra le varie imprese, vitali o distruttive, che l’ossigeno sa compiere, a noi verniciai interessa soprattutto la sua capacità di reagire con certe molecole piccole, quali quelle di certi oli, e di creare ponti fra loro trasformandole in un reticolo compatto e quindi solido: è cosí che, ad esempio, «asciuga» all’aria l’olio di lino.
Avevamo importato una partita di resina per vernici, una appunto di quelle resine che solidificano a temperatura ordinaria per semplice esposizione all’atmosfera, ed eravamo preoccupati. Controllata da sola, la resina essiccava regolarmente, ma dopo di essere stata macinata con un certo (insostituibile) tipo di nerofumo, la capacità di essiccare si attenuava fino a sparire: avevamo già accantonato diverse tonnellate di smalto nero che, a dispetto di tutte le correzioni tentate, dopo applicato rimaneva appiccicoso indefinitamente, come una lugubre carta moschicida.
In casi come questi, prima di formulare accuse bisogna andare cauti. Il fornitore era la W., grande e rispettabile industria tedesca, uno dei tronconi in cui, dopo la guerra, gli Alleati avevano smembrato la onnipotente IG-Farben: gente come questa, prima di riconoscersi in colpa, butta sul piatto della bilancia tutto il peso del proprio prestigio e tutta la propria capacità defatigatoria. Ma non c’era modo di evitare la controversia: le altre partite di resina si comportavano bene con quella stessa partita di nerofumo, la resina era di un tipo speciale, che solo la W. produceva, e noi eravamo vincolati da un contratto, e dovevamo assolutamente continuare a fornire quello smalto nero, senza perdere scadenze.
Scrissi una educata lettera di protesta, esponendo i termini della questione, e pochi giorni dopo giunse la risposta: era lunga e pedante, consigliava artifici ovvi che noi avevamo già adottati senza risultato, e conteneva un’esposizione superflua e deliberatamente confusa sul meccanismo d’ossidazione della resina; ignorava la nostra fretta, e sul punto essenziale diceva soltanto che erano in corso i doverosi controlli. Non rimaneva altro da fare se non ordinare subito un’altra partita, raccomandando alla W. di verificare con particolare cura il comportamento della resina con quel tipo di nerofumo.
Insieme con la conferma di quest’ultimo ordine, giunse una seconda lettera, lunga quasi quanto la prima, e firmata dallo stesso Doktor L. Müller. Era un po’ piú pertinente della prima, riconosceva (con molte cautele e riserve) la giustezza della nostra doglianza, e conteneva un consiglio meno ovvio dei precedenti: «ganz unerwarteterweise», e cioè in modo del tutto inaspettato, gli gnomi del loro laboratorio avevano trovato che la partita contestata guariva se addizionata dello 0,1 per cento di naftenato di vanadio: un additivo di cui, fino a quel tempo, nel mondo delle vernici non si era mai sentito parlare. L’ignoto dottor Müller ci invitava a verificare immediatamente la loro affermazione; se l’effetto veniva confermato, la loro osservazione avrebbe potuto evitare ad entrambe le parti i fastidi e le incognite di una controversia internazionale e di una riesportazione.
Müller. C’era un Müller in una mia incarnazione precedente, ma Müller è un nome comunissimo in Germania, come Molinari in Italia, di cui è l’esatto equivalente. Perché continuare a pensarci? Eppure, rileggendo le due lettere dal periodare pesantissimo, infarcite di tecnicismi, non riuscivo a far tacere un dubbio, di quelli che non si lasciano accantonare e ti scricchiolano dentro come tarli. Ma via, i Müller in Germania saranno duecentomila, lascia andare e pensa alla vernice da correggere.
…e poi, ad un tratto, mi ritornò sott’occhio una particolarità dell’ultima lettera che mi era sfuggita: non era un errore di battuta, era ripetuto due volte, stava proprio scritto «naptenat», non «naphthenat» come avrebbe dovuto. Ora, degli incontri fatti in quel mondo ormai remoto io conservo memorie di una precisione patologica: ebbene, anche quell’altro Müller, in un non dimenticato laboratorio pieno di gelo, di speranza e di spavento, diceva «beta-Naptylamin» anziché «beta-Naphthylamin».
I russi erano alle porte, due o tre volte al giorno venivano gli aerei alleati a sconquassare la fabbrica di Buna: non c’era un vetro intero, mancavano l’acqua, il vapore, l’energia elettrica; ma l’ordine era di incominciare a produrre gomma Buna, e i tedeschi non discutono gli ordini.
Io stavo in un laboratorio con altri due prigionieri specialisti, simili agli schiavi indottrinati che i ricchi romani importavano dalla Grecia. Lavorare era tanto impossibile quanto inutile: il nostro tempo se ne andava quasi per intero nello smontare gli apparecchi ad ogni allarme aereo e nel rimontarli ad allarme cessato. Ma appunto, gli ordini non si discutono, ed ogni tanto qualche ispettore si faceva largo fino a noi attraverso le macerie e la neve per accertarsi che il lavoro del laboratorio procedesse secondo le prescrizioni. A volte veniva un SS dalla faccia di pietra, altre volte un vecchio soldatino della Territoriale spaurito come un sorcio, altre ancora un borghese. Il borghese che compariva piú sovente veniva chiamato Doktor Müller.
Doveva essere piuttosto autorevole, perché tutti lo salutavano per primi. Era un uomo alto e corpulento, sui quarant’anni, dall’aspetto piuttosto rozzo che raffinato; con me aveva parlato soltanto tre volte, e tutte e tre con una timidezza rara in quel luogo, come se si vergognasse di qualche cosa.
La prima volta, solo di questioni di lavoro (del dosamento della «naptilamina», appunto); la seconda volta mi aveva chiesto perché avevo la barba cosí lunga, al che io avevo risposto che nessuno di noi aveva un rasoio, anzi neppure un fazzoletto, e che la barba ci veniva rasa d’ufficio tutti i lunedí; la terza volta mi aveva dato un biglietto, scritto nitidamente a macchina, che mi autorizzava ad essere raso anche il giovedí ed a prelevare dall’Effektenmagazin un paio di scarpe di cuoio, e mi aveva chiesto, dandomi del «lei»: «Perché ha l’aria cosí inquieta?» Io, che a quel tempo pensavo in tedesco, avevo concluso fra me: «Der Mann hat keine Ahnung», costui non si rende conto.
Prima il dovere. Mi affrettai a ricercare fra i nostri comuni fornitori un campione di naftenato di vanadio, e mi accorsi che non era facile: il prodotto non era di fabbricazione normale, veniva preparato in piccoli quantitativi e solo su ordinazione; trasmisi l’ordinazione.
Il ritorno di quel «pt» mi aveva precipitato in una eccitazione violenta. Ritrovarmi, da uomo a uomo, a fare i conti con uno degli «altri» era stato il mio desiderio piú vivo e permanente del dopo-Lager. Era stato soddisfatto solo in parte dalle lettere dei miei lettori tedeschi: non mi accontentavano, quelle oneste e generiche dichiarazioni di pentimento e di solidarietà da parte di gente mai vista, di cui non conoscevo l’altra facciata, e che probabilmente non era implicata se non sentimentalmente. L’incontro che io aspettavo, con tanta intensità da sognarlo (in tedesco) di notte, era un incontro con uno di quelli di laggiú, che avevano disposto di noi, che non ci avevano guardati negli occhi, come se noi non avessimo avuto occhi. Non per fare vendetta: non sono un Conte di Montecristo. Solo per ristabilire le misure, e per dire «dunque?» Se questo Müller era il mio Müller, non era l’antagonista perfetto, perché in qualche modo, forse solo per un momento, aveva avuto pietà, o anche solo un rudimento di solidarietà professionale. Forse ancora meno: forse si era soltanto risentito per il fatto che quello strano ibrido di collega e di strumento, che pure in somma era un chimico, frequentasse un laboratorio senza l’Anstand, il decoro, che il laboratorio richiede; ma gli altri intorno a lui non avevano sentito neppure questo. Non era l’antagonista perfetto: ma, come è noto, la perfezione è delle vicende che si raccontano, non di quelle che si vivono.
Mi misi in contatto col rappresentante della W., con cui ero abbastanza in confidenza, e lo pregai di investigare con discrezione sul dottor Müller: quanti anni aveva? quale aspetto? dove era stato durante la guerra? La risposta non tardò molto: gli anni e l’aspetto coincidevano, l’uomo aveva lavorato prima a Schkopau, per impratichirsi nella tecnologia della gomma, poi alla fabbrica di Buna, presso Auschwitz. Ottenni il suo indirizzo, e gli mandai, da privato a privato, una copia della edizione tedesca di Se questo è un uomo, con una lettera di accompagnamento in cui gli chiedevo se era veramente lui il Müller di Auschwitz, e se ricordava «i tre uomini del laboratorio»; bene, che scusasse la brutale intromissione e ritorno dal nulla, io ero uno dei tre, oltre ad essere il cliente preoccupato per la resina che non essiccava.
Mi disposi all’attesa della risposta, mentre a livello aziendale continuava, come l’oscillazione di un enorme lentissimo pendolo, lo scambio di lettere chimico-burocratiche a proposito del vanadio italiano che non andava cosí bene come quello tedesco. Vogliate pertanto spedirci con cortese urgenza le specificazioni del prodotto, ed inviarcene per via aerea kg 50, il cui importo vorrete defalcare eccetera. Sul piano tecnico la questione sembrava bene avviata, ma non era chiaro il destino del lotto difettoso di resina: trattenerlo con uno sconto sul prezzo, o riesportarlo a spese della W., o chiedere un arbitrato; intanto, come è usanza, ci minacciavamo a vicenda di adire le vie legali, «gerichtlich vorzugehen».
La risposta «privata» continuava a farsi attendere, il che era irritante e snervante quasi quanto la contesa aziendale. Che cosa sapevo del mio uomo? Niente: con ogni probabilità aveva cancellato tutto, deliberatamente o no; la mia lettera e il mio libro erano per lui un’intrusione ineducata e fastidiosa, un invito maldestro a rimestare un sedimento ormai bene assestato, un attentato all’Anstand. Non avrebbe risposto mai. Peccato: non era un tedesco perfetto, ma esistono tedeschi perfetti? o ebrei perfetti? Sono un’astrazione: il passaggio dal generale al particolare riserva sempre delle sorprese stimolanti, quando il partner privo di contorni, larvale, ti si definisce davanti, a poco a poco o ad un solo tratto, e diventa il Mitmensch, il co-uomo, con tutto il suo spessore, ticchi, anomalie ed anacoluti. Ormai erano passati quasi due mesi: la risposta non sarebbe piú arrivata. Peccato.
Arrivò datata 2 marzo 1967, su elegante carta intestata in caratteri vagamente gotici. Era una lettera di apertura, breve e riservata. Sí, il Müller di Buna era proprio lui. Aveva letto il mio libro, riconosciuto con emozione persone e luoghi; era lieto di sapermi sopravvissuto; mi chiedeva notizie degli altri due «uomini del laboratorio», e fin qui non c’era nulla di strano, poiché erano nominati nel libro: ma chiedeva anche di Goldbaum, che io non avevo nominato. Aggiungeva di aver riletto, con l’occasione, le sue annotazioni su quel periodo: me le avrebbe commentate volentieri in un auspicabile incontro personale, «utile sia a me, sia a Lei, e necessario ai fini del superamento di quel terribile passato» («im Sinne der Bewältigung der so furchtbaren Vergangenheit»). Dichiarava infine che, fra tutti i prigionieri che aveva incontrato ad Auschwitz, ero io quello che gli aveva fatto l’impressione piú forte e duratura, ma questa poteva bene essere una lusinga: dal tono della lettera, e in specie da quella frase sul «superamento», sembrava che l’uomo aspettasse qualcosa da me.
Adesso toccava a me rispondere, e mi sentivo imbarazzato. Ecco: l’impresa era riuscita, l’avversario accalappiato; era davanti a me, quasi un collega verniciaio, scriveva come me su carta intestata, e si ricordava perfino di Goldbaum. Era ancora assai sfuocato, ma era chiaro che voleva da me qualcosa come un’assoluzione, perché lui aveva un passato da superare e io no: io volevo da lui soltanto uno sconto sulla fattura di una resina difettosa. La situazione era interessante, ma atipica: coincideva solo in parte con quella del reprobo davanti al giudice.
In primo luogo: in quale lingua gli avrei risposto? Non in tedesco certo; avrei commesso errori ridicoli, che il mio ruolo non ammetteva. Meglio sempre combattere sul proprio campo: gli scrissi in italiano. I due del laboratorio erano morti, non sapevo dove né come; cosí pure Goldbaum, di freddo e fame, durante la marcia di evacuazione. Di me, l’essenziale lo conosceva dal libro, e dalla corrispondenza aziendale sul vanadio.
Avevo io molte domande da porgli: troppe, e troppo pesanti per lui e per me. Perché Auschwitz? Perché Pannwitz? Perché i bambini in gas? Ma sentivo che non era ancora il momento di superare certi limiti, e gli chiesi soltanto se accettava i giudizi, impliciti ed espliciti, del mio libro. Se riteneva che la IG-Farben avesse assunto spontaneamente la mano d’opera schiava. Se conosceva allora gli «impianti» di Auschwitz, che ingoiavano diecimila vite al giorno a sette chilometri dagli impianti per la gomma Buna. Infine, poiché lui citava le sue «annotazioni su quel periodo», me ne avrebbe mandata una copia?
Dell’«auspicabile incontro» non parlai, perché ne avevo paura. Inutile cercare eufemismi, parlare di pudore, ribrezzo, ritegno. Paura era la parola: come non mi sentivo un Montecristo, cosí non mi sentivo un Orazio-Curiazio; non mi sentivo capace di rappresentare i morti di Auschwitz, e neppure mi pareva sensato ravvisare in Müller il rappresentante dei carnefici. Mi conosco: non posseggo prontezza polemica, l’avversario mi distrae, mi interessa piú come uomo che come avversario, lo sto a sentire e rischio di credergli; lo sdegno e il giusto giudizio mi tornano dopo, sulle scale, quando non servono piú. Mi stava bene continuare per lettera.
Müller mi scrisse aziendalmente che i cinquanta chili erano stati spediti, e che la W. confidava in una composizione amichevole eccetera. Quasi simultaneamente, mi giunse a casa la lettera che attendevo: ma non era come la attendevo. Non era una lettera modello, da paradigma: a questo punto, se questa storia fosse inventata, avrei potuto introdurre solo due tipi di lettera; una lettera umile, calda, cristiana, di tedesco redento; una ribalda, superba, glaciale, di nazista pervicace. Ora questa storia non è inventata, e la realtà è sempre piú complessa dell’invenzione: meno pettinata, piú ruvida, meno rotonda. È raro che giaccia in un piano.
La lettera era lunga otto pagine, e conteneva una fotografia che mi fece trasalire. Il viso era quel viso: invecchiato, ed insieme nobilitato da un fotografo sapiente, lo risentivo alto sopra di me a pronunciare quelle parole di compassione distratta e momentanea, «perché ha l’aria cosí inquieta?»
Era visibilmente opera di uno scrivente inesperto: retorica, sincera a mezzo, piena di digressioni e di elogi sperticati, commovente, pedantica ed impacciata: sfidava qualsiasi giudizio sommario e globale.
Attribuiva i fatti di Auschwitz all’Uomo, senza differenziare; li deplorava, e trovava consolazione al pensiero di altri uomini citati nel mio libro, Alberto, Lorenzo, «contro cui si spuntano le armi della notte»: la frase era mia, ma ripetuta da lui mi suonava ipocrita e stonata.
Raccontava la sua storia: «trascinato inizialmente dal generale entusiasmo per il regime di Hitler», si era iscritto in una lega studentesca nazionalistica, che poco dopo era stata incorporata d’ufficio nelle SA; aveva ottenuto di esserne congedato, e commentava che «anche questo era dunque possibile». Alla guerra, era stato mobilitato nell’antiaerea, e soltanto allora, davanti alle rovine delle città, aveva provato «vergogna e sdegno» per la guerra. Nel maggio del ’44 aveva potuto (come me!) far valere la sua qualità di chimico, ed era stato assegnato alla fabbrica di Schkopau della IG-Farben, di cui la fabbrica di Auschwitz era una copia ingrandita: a Schkopau aveva provveduto ad addestrare nei lavori di laboratorio un gruppo di ragazze ucraine, che infatti io avevo ritrovate ad Auschwitz, e di cui non mi spiegavo la strana familiarità col dottor Müller. Era stato trasferito ad Auschwitz con le ragazze solo nel novembre 1944: il nome di Auschwitz, a quel tempo, non aveva alcun significato, né per lui, né per i suoi conoscenti; tuttavia, al suo arrivo, aveva avuto un breve incontro di presentazione col direttore tecnico (presumibilmente l’ingegner Faust), e questi lo aveva ammonito che «agli ebrei di Buna dovevano essere assegnati solo i lavori piú umili, e la compassione non era tollerata».
Era stato assegnato alle dirette dipendenze del Doktor Pannwitz, quello che mi aveva sottoposto ad un curioso «esame di Stato» per accertarsi delle mie capacità professionali: Müller mostrava di avere una pessima opinione del suo superiore, e mi precisava che era morto nel 1946 di un tumore al cervello. Era lui Müller il responsabile dell’organizzazione del laboratorio di Buna: affermava di non aver saputo nulla di quell’esame, e di essere stato lui stesso a scegliere noi tre specialisti, e me in specie; secondo questa notizia, improbabile ma non impossibile, sarei dunque stato debitore a lui della mia sopravvivenza. Con me, affermava di aver avuto un rapporto quasi di amicizia fra pari; di aver conversato con me di problemi scientifici, e di aver meditato, in questa circostanza, su quali «preziosi valori umani venissero distrutti da altri uomini per pura brutalità». Non solo io non ricordavo alcuna conversazione del genere (e la mia memoria di quel periodo, come ho detto, è ottima), ma il solo supporle, su quello sfondo di disfacimento, di diffidenza reciproca e di stanchezza mortale, era del tutto fuori della realtà, e solo spiegabile con un molto ingenuo wishful thinking postumo; forse era una circostanza che lui raccontava a molti, e non si rendeva conto che l’unica persona al mondo che non la poteva credere ero proprio io.
Forse, in buona fede, si era costruito un passato di comodo. Non ricordava i due dettagli della barba e delle scarpe, ma ne ricordava altri equivalenti, e a mio parere plausibili. Aveva saputo della mia scarlattina, e si era preoccupato della mia sopravvivenza, specialmente quando aveva saputo che i prigionieri venivano evacuati a piedi. Il 26 gennaio 1945 era stato assegnato dalle SS al Volkssturm, l’armata raccogliticcia di riformati, di vecchi e di bambini che avrebbe dovuto contrastare il passo ai sovietici: lo aveva fortunosamente salvato il direttore tecnico nominato sopra, autorizzandolo a fuggire nelle retrovie.
Alla mia domanda sulla IG-Farben rispondeva recisamente che sí, aveva assunto prigionieri, ma solo per proteggerli: addirittura, formulava la (pazzesca!) opinione che l’intera fabbrica di Buna-Monowitz, otto chilometri quadrati di impianti ciclopici, fosse stata costruita con l’intento di «proteggere gli ebrei e contribuire a farli sopravvivere», e che l’ordine di non aver compassione per loro fosse «eine Tarnung», un mascheramento. «Nihil de Principe», nessuna accusa alla IG-Farben: il mio uomo era tuttora dipendente della W., che ne era l’erede, e non si sputa nel piatto in cui si mangia. Durante il suo breve soggiorno ad Auschwitz, lui «non era mai venuto a conoscenza di alcun elemento che sembrasse inteso all’uccisione degli ebrei». Paradossale, offensivo, ma non da escludersi: a quel tempo, presso la maggioranza silenziosa tedesca, era tecnica comune cercare di sapere quante meno cose fosse possibile, e perciò non porre domande. Anche lui, evidentemente, non aveva domandato spiegazioni a nessuno, neppure a se stesso, benché le fiamme del crematorio, nei giorni chiari, fossero visibili dalla fabbrica di Buna.
Poco prima del collasso finale, era stato catturato dagli americani, e rinchiuso per qualche giorno in un campo per prigionieri di guerra che lui, con sarcasmo involontario, definiva «di attrezzatura primitiva»: come al tempo dell’incontro in laboratorio, Müller continuava dunque, nel momento in cui scriveva, a non avere «keine Ahnung», a non rendersi conto. Era ritornato presso la sua famiglia a fine giugno 1945. Il contenuto delle sue annotazioni, che io avevo chiesto di conoscere, era sostanzialmente questo.
Percepiva nel mio libro un superamento del Giudaismo, un compimento del precetto cristiano di amare i propri nemici ed una testimonianza di fede nell’Uomo, e concludeva insistendo sulla necessità di un incontro, in Germania o in Italia, dove era pronto a raggiungermi quando e dove io lo gradissi: preferibilmente in Riviera. Due giorni dopo, per i canali aziendali, arrivò una lettera della W. che, certo non per caso, portava la stessa data della lunga lettera privata, oltre alla stessa firma; era una lettera conciliante, riconoscevano il loro torto, e si dichiaravano disponibili a qualsiasi proposta. Facevano capire che non tutto il male era venuto per nuocere: l’incidente aveva messo in luce la virtú del naftenato di vanadio, che d’ora in avanti sarebbe stato incorporato direttamente nella resina, a qualunque cliente fosse destinata.
Che fare? Il personaggio Müller si era «entpuppt», era uscito dalla crisalide, era nitido, a fuoco. Né infame né eroe: filtrata via la retorica e le bugie in buona o in mala fede, rimaneva un esemplare umano tipicamente grigio, uno dei non pochi monocoli nel regno dei ciechi. Mi faceva un onore non meritato attribuendomi la virtú di amare i nemici: no, nonostante i lontani privilegi che mi aveva riserbati, e benché non fosse stato un nemico a rigore di termini, non mi sentivo di amarlo. Non lo amavo, e non desideravo vederlo, eppure provavo una certa misura di rispetto per lui: non è comodo essere monocoli. Non era un ignavo né un sordo né un cinico, non si era adattato, faceva i conti col passato e i conti non gli tornavano bene: cercava di farli tornare, magari barando un poco. Si poteva chiedere molto di piú a un ex-SA?
Il confronto, che tante volte avevo avuto occasione di fare, con altri onesti tedeschi incontrati in spiaggia o in fabbrica, era tutto a suo favore: la sua condanna del nazismo era timida e perifrastica, ma non aveva cercato giustificazioni. Cercava un colloquio: aveva una coscienza, e si arrabattava per mantenerla quieta. Nella sua prima lettera aveva parlato di «superamento del passato», «Bewältigung der Vergangenheit»: ho poi saputo che questo è uno stereotipo, un eufemismo della Germania d’oggi, dove è universalmente inteso come «redenzione dal nazismo»; ma la radice «walt» che vi è contenuta compare anche in parole che dicono «dominio», «violenza» e «stupro», e credo che traducendo l’espressione con «distorsione del passato», o «violenza fatta al passato», non si andrebbe molto lontano dal suo senso profondo. Eppure era meglio questo rifugiarsi nei luoghi comuni che non la florida ottusità degli altri tedeschi: i suoi sforzi di superamento erano maldestri, un po’ ridicoli, irritanti e tristi, tuttavia decorosi. E non mi aveva fatto avere un paio di scarpe?
Alla prima domenica libera mi accinsi, pieno di perplessità, a preparare una risposta per quanto possibile sincera, equilibrata e dignitosa. Stesi la minuta: lo ringraziavo per avermi fatto entrare nel laboratorio; mi dichiaravo pronto a perdonare i nemici, e magari anche ad amarli, ma solo quando mostrino segni certi di pentimento, e cioè quando cessino di essere nemici. Nel caso contrario, del nemico che resta tale, che persevera nella sua volontà di creare sofferenza, è certo che non lo si deve perdonare: si può cercare di recuperarlo, si può (si deve!) discutere con lui, ma è nostro dovere giudicarlo, non perdonarlo. Quanto al giudizio specifico sul suo comportamento, che Müller implicitamente domandava, citavo discretamente due casi a me noti di suoi colleghi tedeschi che nei nostri confronti avevano fatto qualcosa di ben piú coraggioso di quanto lui rivendicava. Ammettevo che non tutti nascono eroi, e che un mondo in cui tutti fossero come lui, cioè onesti ed inermi, sarebbe tollerabile, ma questo è un mondo irreale. Nel mondo reale gli armati esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti ed inermi spianano loro la strada; perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi, ogni uomo, e dopo Auschwitz non è piú lecito essere inermi. Dell’incontro in Riviera non feci parola.
Quella sera stessa Müller mi chiamò al telefono dalla Germania. La comunicazione era disturbata, e del resto ormai non mi è piú facile comprendere il tedesco al telefono: la sua voce era faticosa e come rotta, il tono concitato. Mi annunciava che per Pentecoste, entro sei settimane, sarebbe venuto a Finale Ligure: potevamo incontrarci? Preso alla sprovvista, risposi di sí; lo pregai di precisare a suo tempo i particolari del suo arrivo, e misi da parte la minuta ormai superflua.
Otto giorni dopo ricevetti dalla Signora Müller l’annuncio della morte inaspettata del Dottor Lothar Müller, nel suo sessantesimo anno di età.
Einaudi, 1975, Pubblicato solo per fini didattici
Vanadio e il grigio dottor Müller – Marco Belpoliti da Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda 2015)
Il penultimo racconto di Il sistema periodico è intitolato Vanadio, elemento chimico presente nella tavola di Mendeleev con numero atomico 23, elemento raro, duttile e duro, tre qualità che si ritrovano nella storia raccontata. Riguarda ancora il Lager, e in particolare uno dei chimici che si trovavano nel laboratorio della Buna. Nel racconto il personaggio in questione si chiama dottor Müller, ma il suo vero nome è Ferdinand Meyer.
La prima parte narra una vicenda chimica, di una vernice, la cui particolarità è di non rispondere ai requisiti necessari affinché funzioni. In queste pagine Levi dispiega tutta la sua perizia di chimico provetto, di «verniciaio», ma anche di scrittore. Un’azienda tedesca fornisce alla Siva di Settimo Torinese, di cui lo scrittore è direttore tecnico, una partita di resina difettosa. Tutto questo porta a uno scambio di lettere tra la ditta, cioè Levi stesso, e la W., «la grande e rispettabile industria tedesca», che deriva da uno dei tronconi dell’azienda chimica I.G. Farben, smembrata dagli Alleati dopo la fine della guerra. La I.G. Farben, come sappiamo, utilizzava la manodopera del Lager di Monowitz dove il giovane deportato ebreo si trovava rinchiuso.
Dopo la narrazione del difetto nella resina entra in scena il Doktor L. Müller che suggerisce la soluzione per risolvere il problema: naftenato di vanadio, un additivo che renderebbe efficace la vernice, togliendole il difetto che le impedisce di essiccarsi in modo adeguato (Levi parla del risultato come di «una lugubre carta moschicida»). Dallo scambio epistolare Levi arguisce che il dottor Müller è un chimico presente nel laboratorio della Buna a Monowitz-Auschwitz. Il dettaglio rivelatore è un lapsus linguistico: l’errore riguardante la parola «Naphthenat» – nella lettera è scritto «Naptenat» –, l’indizio chiave. Lo scrittore torinese ricorda infatti che Müller, nel «non dimenticato laboratorio pieno di gelo, di speranza e di spavento» diceva «beta-Naptylamin» anziché «beta-Naphtylamin», omettendo la h, così come accade con «Naphthenat».
Il brano immediatamente successivo è un flashback. Si torna nel laboratorio della Buna e si racconta l’incontro con Müller. Sono due pagine in tipico stile Levi, dove narrazione e riflessione si fondono perfettamente. Poi si ritorna ai giorni nostri, o meglio a quel 1967, come si capirà due pagine dopo, in cui si svolge la storia del ritrovamento di Müller. Non ancora sicuro che Müller sia proprio quel Müller, Levi si mette in contatto con il rappresentante della ditta, W., e lo prega di investigare sul chimico tedesco: anni, aspetto fisico, attività durante la guerra. La conclusione è quella attesa: è proprio quel Müller. A questo punto lo scrittore dichiara tutta la sua «eccitazione violenta» per la scoperta, ma aggiunge che non vuole vendetta: non è un conte di Montecristo, vuole solo «ristabilire le misure» (p. 925, vol. I).
Dopo la pubblicazione di Se questo è un uomo in Germania nel 1961, questa è la prima volta che Levi si trova faccia a faccia, seppur per lettera, con uno dei tedeschi che erano là, ad Auschwitz. Non è una SS, ma comunque un uomo che collaborava con il progetto del Terzo Reich. Müller, apprendiamo da Vanadio, «aveva avuto pietà, o anche solo un rudimento di solidarietà professionale» (p. 925, vol. I).
Levi racconta di aver parlato con lui da chimico a chimico, di aver ricevuto il permesso di radersi e anche un paio di scarpe di cuoio. Gli aveva dato del lei e chiesto: «Perché ha l’aria così inquieta?» Anche se tra sé e sé il giovane deportato italiano, che allora pensava in tedesco, aveva concluso: «‘Der Mann hat keine Ahnung’, costui non si rende conto» (p. 925, vol. I). Ottenuto l’indirizzo gli scrive una lettera, la spedisce unendo una copia dell’edizione tedesca di Se questo è un uomo. La storia prosegue con un doppio carteggio; da un lato, quello ufficiale, da ditta a ditta, che riguarda il vanadio, l’elemento chimico che giustifica l’inserimento della storia in Il sistema periodico, e dall’altro la corrispondenza privata tra il chimico della Buna e l’ex deportato. Seguono tre lettere: la risposta di Müller a Levi, la replica di Levi a Müller e la nuova risposta di Müller a Levi; e quindi una quarta lettera che Levi comincia a scrivere, ma che non completerà, o almeno non spedirà, per l’improvvisa scomparsa del suo corrispondente tedesco. Il racconto narra tutto questo e riporta la vera e ultima lettera che Levi ha inviato al suo «nemico».
Sin qui la storia che leggiamo in Vanadio. Ma c’è un’altra storia, ancora tutta da scrivere, che s’intreccia con quella del racconto di Il sistema periodico. Come ha capito la biografa di Primo Levi Carole Angier, che ne scrive in Il doppio legame (Angier, 2004), la storia dello scambio epistolare non è andata proprio così, e com’è capitato in altri libri di Levi, lo scrittore ha «arrotondato» il racconto e quello che leggiamo è una perfetta mescolanza di verità e finzione. Il motivo non è solo la naturale ritrosia e pudore di Levi – ha cambiato i nomi della ditta e di Müller per non farli riconoscere –, ma anche la ricerca di una narrazione efficace e semplificata, e perciò letterariamente funzionale. Si è dimostrato buon scrittore ancora una volta, e così, come ha scritto Mario Barenghi in un suo intervento (Barenghi, 2013), un valido testimone; tra i due ruoli c’è una stretta connessione.
Barenghi spiega come Levi abbia messo la narrazione al servizio della testimonianza. Il criterio di veridicità nel caso di Levi, come in quello di altri testimoni, non è dato dalla conformità tra la rievocazione memoriale e un evento intrinsecamente informe e per di più non documentabile (ecco il problema di fronte al Lager e allo sterminio). Quello che conta, scrive Barenghi, «è il valore morale dell’esperienza che non si dà mai tutto nell’hic et nunc (o meglio nell’illic et tunc)», ovvero nell’immediatezza. Il lavoro letterario di Levi ha un grande valore proprio per il suo «processo di costruzione di senso che muove dal suo vissuto e si sviluppa in un arco di tempo impregiudicabile attraverso il lavoro della memoria». Detto altrimenti, l’opera di Levi è esemplare perché «prodotto di una strategia narrativa che poggia su una precisa economia della memoria». Grande testimone, perché grande scrittore: tutto ruota intorno a quella doppia faccia, che è poi una sola.
Il saggio di Barenghi è articolato e complesso, pur nella sua concisione; si fonda su una definizione dei concetti di memoria e ricordo. Crediamo a Primo Levi, scrive, per via del suo stile, per la moralità della sua scrittura, per la forma della sua testimonianza. Il suo obiettivo, com’è detto sin dalle prime righe di Se questo è un uomo, non è di fornire nuovi particolari atroci, ma di riflettere sull’uomo. Il suo è uno studio dell’uomo in genere. Opera da scrittore e da grande moralista in senso classico, per quanto attiene al suo primo libro.
E ora? Come considerare il racconto Vanadio?
Attraverso una serie di lettere che appartengono al carteggio tra Levi e Müller-Meyer si può provare a ricostruire la vicenda. A trovare Müller-Meyer non fu Levi stesso, bensì una terza persona che non è presente nel racconto, ma che invece ha avuto una notevole importanza nel rapporto tra Levi e la Germania: Hety Schmitt-Maass. Hety è stata corrispondente di Levi dal 1966 al 1981. Lei ha fornito a Levi le opere di Jean Améry, lei ha trovato l’indirizzo postale di Müller-Meyer. In una delle prime lettere che Levi le indirizza alla fine del 1966, le chiede notizia di diverse persone che erano presenti nel laboratorio della Buna: dottor Pannwitz, dottor Probst, dottor Hagen, dottor ingegner Meyer. «Lavoravano», scrive, «tutti nel reparto di polimerizzazione a Buna-Monowitz; del primo ho riferito nel mio libro, l’ultimo si comportava in maniera particolarmente gentile con noi e con i colleghi.» Hety ha sposato un chimico impiegato a Ludwigshafen, la fabbrica modello della I.G. Farben, da cui era stata clonata la fabbrica della Buna. Conosceva un chimico, Reinhard Heidebroek, che era stato ad Auschwitz a lavorare con la moglie, e in un suo ritorno aveva riferito ai colleghi e agli amici che era «un campo di concentramento». Bisogna aggiungere che Hety era figlia di un pedagogista di fede socialista, antinazista, perseguitato e internato a Dachau nel luglio del 1944. Hety racconterà in una lettera inviata a Müller-Meyer nell’aprile del 1967 la storia della sua famiglia durante il nazismo, lettera che, girata in copia a Levi, farà comprendere meglio a questi la situazione tedesca e creerà un legame ancora più solido con la sua corrispondente.
È Hety che nel gennaio del 1967, avuto l’indirizzo di Müller-Meyer attraverso l’ex marito, da cui si è da tempo separata, scrive al chimico della Buna e gli manda la copia tedesca di Se questo è un uomo. Hety si è assunta lo scopo di scandagliare in «un passato che nessuno ha superato», come scrive a Müller-Meyer, attraverso contatti che ha stabilito con Hermann Langbein, ex deportato e autore di vari libri, Jean Améry e lo stesso Levi. Spiega nella sua missiva a Müller-Meyer i suoi legami con i chimici di Ludwigshafen e lo esorta a scrivere a Levi stesso. Cinque giorni dopo Levi scrive a Hety e ricorda l’episodio del rasoio e delle scarpe che troveremo otto anni più tardi in Vanadio, quasi con le stesse parole; commenta il caso di Heidebroek come esempio tipico di uomo non nazista e non malvagio, ma che ha obbedito agli ordini impartiti. Ricorda come queste persone si siano poi scusate sostenendo che erano andate ad Auschwitz affinché non vi arrivassero dei veri nazisti. Ci si può credere solo in un caso, dice Levi a Hety: se chi lo sostiene può dimostrare di aver fatto qualcosa di concreto, anche poco, a suo rischio e pericolo, in aiuto delle vittime e contro l’autorità. Per lui il punto è proprio questo: la cieca obbedienza all’autorità, forza e debolezza del popolo tedesco.
Il 2 marzo 1967 Müller, ovvero Ferdinand Meyer, risponde a Hety ringraziandola di avergli mandato il libro di Levi e di averlo messo in contatto con lui e le assicura che gli scriverà. Lo fa il giorno stesso.
Si tratta di una lettera carica di simpatia, parla dell’inferno di Auschwitz e si dice lieto che Levi sia sopravvissuto. Elenca i compagni del chimico torinese e chiede del fisico di Breslavia dottor Goldbaum, non nominato nell’opera di Levi, e che troveremo poi in un racconto successivo incluso in Lilít.
Dunque la prima parte di Vanadio è una invenzione narrativa. Il chimico della Buna scrive a Levi che lavora alla Bsf di Ludwigshafen, la W. del racconto, ma se fosse stato davvero in corrispondenza con Levi per la questione della partita di resina, non avrebbe avuto bisogno di ribadirlo: il suo interlocutore avrebbe dovuto saperlo. Si erano già scritti varie volte come rappresentanti delle due aziende. Evidentemente Primo Levi non ha voluto mettere di mezzo Hety, ma ha anche creato un piccolo giallo con tanto di decifrazione investigativa che funziona molto bene nell’economia complessiva della storia. Ha ragione Carole Angier nel dire che qui Levi ha sfondato la barriera narrativa, ma forse in quel momento e a questo riguardo non gli faceva piacere ammetterlo apertamente.
Meyer sempre quel giorno scrive a Hety Schmitt-Maass un’altra lettera riguardo a un libro di Améry, quello che verrà tradotto in italiano con il titolo di Intellettuale a Auschwitz, che lei gli ha dato in lettura o suggerito, e le chiede di inoltrare ad Améry, con cui Hety è in contatto, le sue riflessioni sul libro. Lo stesso giorno Levi batte a macchina una lettera per la sua corrispondente tedesca in cui parla di varie cose personali e conclude ringraziandola di avergli dato l’indirizzo di Meyer e anche di avergli inviato il suo libro. Dieci giorni dopo, il 12 marzo, Levi risponde a Meyer. Come spiega in Vanadio, decide di farlo in italiano, dal momento che il suo tedesco è «molto scorretto»; si tratta, ricorda a Meyer, di quello che ha imparato ad Auschwitz, o poco di più. Inoltre non sa se il suo interlocutore conosce il francese o l’inglese. In verità, la ragione per cui si esprime nella sua lingua è tipica di Levi: «la lettera che mi accingo a scrivere esigerà chiarezza e precisione», possibili evidentemente solo in italiano. Il tono della missiva non è ostile, ma neppure amichevole. Levi tradisce, come racconta in Vanadio, una «eccitazione violenta». Pur dicendo di conservare un buon ricordo del chimico della Buna, e volendo, come chiede l’interlocutore, raggiungere una Bewältigung del passato, non nasconde a Meyer la sua esitazione: si trova per la prima volta «come al termine di una partita a scacchi», in comunicazione con qualcuno che è dall’altro lato della barricata, per quanto capisca che Meyer stava da quella parte controvoglia. Accetta l’idea di incontrarsi con lui, anche perché lo ritiene indispensabile, e gli fa alcune proposte di date, ma traspare che non è proprio questo che vuole. Risponde alle domande circa i compagni del laboratorio: non sa nulla di Brackier e Kandel, mentre Goldbaum, scrive, «è morto di fame e di freddo durante l’evacuazione da Auschwitz a Buchenwald». Poi riepiloga la sua vita da Auschwitz a quel momento, compresa l’avventura dopo la liberazione, che ha già trovato forma in La tregua. Gli pone a sua volta delle domande. Sono stringate e serrate: Pannwitz descritto nel libro era così? È vivo o morto? La direzione della I.G. Farben ha assunto malvolentieri la manodopera proveniente dal Lager? In questo modo ha inteso favorire i prigionieri? Il loro lavoro era utile o inutile oppure nocivo? Che cosa sapeva lui degli «impianti» di Birkenau? Lo colpisce che qualcuno sapesse il suo nome e quello degli altri, non erano solo dei numeri? Gli chiede cosa ricorda di lui. Quindi rievoca l’episodio del rasoio e delle scarpe di cuoio, e dice di aver avuto l’impressione di trovarsi davanti a un uomo «che provava pietà e forse anche vergogna». Dopo aver assunto un tono vagamente inquisitorio, il finale della lettera è più possibilista: «mi risponda solo se lo crede opportuno». Gli chiede copia dei suoi appunti del periodo e termina con una frase che esprime la sua convinzione di fondo, al di là dell’agitazione:
«Sono molto contento di poter comunicare con lei: per parte mia, considero questo incontro, per ora solo epistolare, un inaspettato e straordinario dono del destino, e sono sicuro che non ne potrà scaturire che del bene». Manda copia delle lettere («missione contatto») a Hety il giorno dopo.
In Vanadio dà un riassunto della lettera e aggiunge che non si sente il rappresentante dei morti di Auschwitz, così come non vede in Müller il rappresentante dei carnefici. Esclude qui la logica amico-nemico facendo il paragone con la contrapposizione tra Orazi e Curiazi, cui si dice estraneo. Fa anche una confidenza caratteriale al lettore: non è uomo pronto alla polemica, l’avversario lo distrae, gli interessa di più l’uomo, a rischio di credergli; lo sdegno e il giudizio giusto gli vengono dopo, quando è «sulle scale», quando non servono più. In verità, nella lettera un giudizio traspare, e non è né di assoluzione né di condanna.
Meyer gli risponde. Non è tra le lettere che ho potuto leggere, perciò mi baserò su quello che Levi stesso ne scrive in Vanadio. Qui Levi fa una inconsueta considerazione che colloca tutto il racconto su un piano anomalo. Dice: la lettera che ho ricevuto «non era una lettera modello, da paradigma»; e subito aggiunge: «se questa storia fosse inventata, avrei potuto introdurre solo due tipi di lettera; una lettera umile, calda, cristiana, di tedesco redento; una ribalda, superba, glaciale da nazista pervicace». Ma poiché «questa storia non è inventata», la realtà risulta «sempre più complessa dell’invenzione: meno pettinata, più ruvida, meno rotonda. È raro che giaccia su un piano».
Qui entra in campo un altro aspetto della personalità di Levi e della stessa lettura che fornisce del Lager. Così come si è mosso in questo racconto tra realtà e invenzione, ora si trova ad affrontare una delle personalità che poi collocherà nella «zona grigia». In effetti, alla fine del resoconto della lunga lettera di risposta di Meyer alle sue domande, dirà che il chimico tedesco non era «né infame né eroe», e filtrata via la retorica e le bugie in buona o in mala fede dalla sua lettera di otto pagine, «rimaneva un esemplare umano tipicamente grigio, uno dei non pochi monocoli nel regno dei ciechi». Grigio: ecco la definizione che compare qui. Meyer non è un caso lontano, come quello di Chajim Rumkowski, su cui si soffermerà in I sommersi e i salvati, ma molto vicino: lo riguarda direttamente. La realtà sta su un piano inclinato e ora si trova a camminarci sopra nel dover giudicare il chimico della I.G. Farben che pure ha avuto per lui sguardi, parole e gesti amichevoli nell’inferno di Auschwitz. Non è facile.
Nel riferire della lettera Levi parte da un dettaglio visivo: la foto che Meyer ha allegato alla lunga missiva. Una immagine che lo fa trasalire: «Il viso era quel viso: invecchiato, ed insieme nobilitato da un fotografo sapiente, lo risentivo alto sopra di me a pronunciare quelle parole di compassione distratta e momentanea, ‘perché ha l’aria così inquieta?’» Poi passa a esaminare la lettera. Meyer fa un resoconto delle sue vicende dalla adesione alla lega nazionalista studentesca e alle SA sino all’arrivo ad Auschwitz come chimico, un resoconto che finisce per assolverlo dai delitti perpetuati dal nazismo cui pure ha aderito. Manifesta vergogna e sdegno ma Levi non è propenso a credergli, o quanto meno a giustificarlo. In buona sostanza non si assume nessuna responsabilità. La conclusione cui arriva lo scrittore è che si era «costruito un passato di comodo», seppure in buona fede. Alle domande circostanziate di Levi sulla I.G. Farben replica con una incredibile storia: la fabbrica di Buna-Monowitz era stata costruita con l’intento di proteggere gli ebrei e farli sopravvivere. Dichiara anche di non aver saputo nulla all’epoca dello sterminio degli ebrei.
Finisce chiedendo un incontro con l’ex deportato in Germania o in Riviera. Dopo aver riassunto la missiva, Levi prova a tirare delle conclusioni; le sue considerazioni si spostano dal dottor Meyer a lui stesso. Si trova ancora su un piano inclinato. Si ha la sensazione che entri ed esca dalla finzione narrativa, che cerchi di trovare un punto di equilibrio tra quello che prova nel raccontare la storia, pur con il suo portato di invenzione letteraria, e invece l’elemento di «realtà» che implica scriverne, ricordare, cercare di capire. Nulla è semplice in un racconto di Levi, proprio per questa commistione di scrittura letteraria e testimonianza, e niente è semplice neppure in lui, nell’autore che è anche voce narrante e protagonista del racconto.
Nelle ultime due pagine del testo manifesta i suoi sentimenti: «Non lo amavo, e non desideravo vederlo, eppure provavo una certa misura di rispetto per lui: non è comodo essere monocoli» (p. 932, vol. I). Il proverbio medievale torna ancora qui, e forse affiora anche la memoria di un racconto di H.G. Wells, Nel paese dei ciechi. «Non era un ignavo né un sordo né un cinico, non si era adattato, faceva i conti col passato e i conti non tornavano bene: cercava di farli tornare, magari barando un poco. Si poteva chiedere molto di più a un ex SA?» Ricorda che nella prima lettera Meyer aveva usato un’espressione tedesca, Bewältigung, che suona come: «superamento» del passato; un eufemismo in uso nella Germania post bellica, ovvero: «redenzione dal nazismo». Ma la traduzione corretta sarebbe, scrive Levi, «violenza fatta al passato». La conclusione è ancora una volta problematica: di fronte alla «florida ottusità» dei tedeschi incontrati nel dopoguerra, probabilmente in Riviera, sulle spiagge e nei luoghi pubblici, gli sforzi di Meyer, seppur «maldestri, un po’ ridicoli, irritanti e tristi, tuttavia decorosi» non erano forse meglio? E in fondo non gli aveva fatto avere un paio di scarpe?
Qui dovrebbe entrare in scena l’ultima lettera, la risposta di Levi, per cui lo scrittore stende una minuta. I suoi temi principali sono elencati nell’ultima pagina del racconto e ribadiscono la posizione di Levi: lo ringrazia per tutto quello che ha fatto, si dichiara pronto a perdonare i nemici (e magari anche amarli) se mostrano segni di pentimento, ovvero quando cessano di essere nemici, ma se la volontà di creare sofferenza permane, non si deve perdonare; si deve cercare di recuperare il nemico, magari discutere con lui, ma è «nostro dovere giudicarlo, non perdonarlo». Il piano inclinato si piega ancora di più nel finale, là dove Levi riferisce che nell’abbozzo di lettera aveva citato i casi di due tedeschi che nella Buna avevano fatto gesti concreti, qualcosa di ben più coraggioso di quanto lui rivendicava nelle sue lettere. Conclusione: non tutti nascono eroi e un mondo in cui tutti fossero come lui, Meyer, onesti e inermi, sarebbe tollerabile; e tuttavia non si può non considerare che si tratta di un mondo irreale. «Nel mondo reale gli armati esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti e inermi spianano loro la strada», scrive; «perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi ogni uomo, e dopo Auschwitz non è più lecito essere inermi». Dell’incontro possibile neppure una parola.
La sera stessa in cui ha cominciato a rispondere alla lettera, Müller-Meyer lo chiama al telefono nella sua casa di Torino e con voce rotta e tono concitato gli annuncia che entro sei settimane andrà a trovarlo a Finale Ligure. Preso alla sprovvista Levi acconsente. Otto giorni dopo riceve dalla moglie di Meyer la notizia che il marito è morto inaspettatamente a sessant’anni. Nel carteggio con Hety c’è tuttavia una lettera di Levi indirizzata a Meyer, scritta in francese e datata 13 maggio
1967: contiene alcuni dei temi e persino delle frasi della minuta riassunta in Vanadio. Il tono è più conciliante e la complessità dei sentimenti provati da Levi evidente. Inizia ricordando la natura anfibia che Auschwitz ha prodotto in lui: un uomo che ha il privilegio e anche i rischi di vivere due vite. Si riferisce al fatto che il Lager gli ha lasciato una doppia identità, di scrittore e chimico: «Pur continuando a lavorare come chimico mi sono trovato un po’ alla volta a impersonare il ruolo di uomo di lettere (che non sono)». Questo gli toglie tempo, come dice al suo corrispondente, per questo ha tardato a rispondere. Ma la ragione è anche un’altra: è in imbarazzo. Si trova, spiega, diviso tra il giudizio complessivo riguardo alla Germania nazista e quello sulla Germania del dopoguerra, che è di diffidente simpatia; diviso tra il giudizio complessivo verso i tedeschi in generale e verso i tedeschi in particolare, verso le singole persone. Di più: nel caso di Meyer è diviso tra il rispetto e la gratitudine, e il dubbio sul fatto che possa aiutarlo a fare i conti con il passato. La natura anfibia, duale, di centauro, è sancita da un’idea di fondo che Levi coltiva: le due battaglie che occorre combattere. Da un lato, contro l’inerzia, la cattiva coscienza e le ingiurie verso il prossimo; dall’altro, contro le medesime colpe presso di sé. Sostiene le stesse tesi sul rapporto con il nemico riassunte in Vanadio; aggiunge che non era d’accordo con l’impiccagione di Eichmann, ma che era giusto catturarlo e giudicarlo, dato che la giustizia tedesca e austriaca lo lasciavano vivere in pace. Nel prosieguo della lettera Levi fa due esempi di uomini tedeschi che in Buna hanno agito e pagato in prima persona: un membro della Polymerisations-Abteilung, chiamato Grober, che reca il pane a un ebreo olandese, sparito all’improvviso nel novembre del 1944, forse mandato sul fronte russo; e Stawinoga che porta con sé Levi in un bunker durante un allarme aereo e fa a pugni con un Triangolo Verde tedesco, vicenda di cui Levi parlerà successivamente in un suo testo, e anche Sina Rasiniko, una delle ragazze ucraine del laboratorio. Che sia questa la lettera della minuta, quella che stava scrivendo prima della scomparsa improvvisa di Meyer? Perché l’ha mandata a Hety? Non lo sappiamo. Comunque sia, si conclude con un ringraziamento per averlo voluto in laboratorio, e per avergli in quel modo salvato la vita – Meyer se ne era preso il merito in una lettera. La conclusione è affettuosa: promette che si incontreranno e chiude con un «Vi stringo molto amabilmente la mano».
In un’altra lettera compresa nel carteggio con Hety, la donna racconta il proprio incontro con Hermann Langbein e il dottor Meyer. A suo dire l’atteggiamento è di chi «continua a rifiutarsi di vedere la realtà»; Meyer tradisce un imbarazzo di fronte alle domande su quello che era accaduto ad Auschwitz. Levi risponde a Hety il 17 giugno 1967 commentando il resoconto dell’incontro con Meyer. Sono i giorni della guerra in Israele e lo scrittore è molto preoccupato e angosciato, tanto da confessare all’amica tedesca di aver provato vergogna, la stessa vergogna di Auschwitz, davanti ai propri figli, «per averli generati in un mondo in cui la guerra incombe stabilmente»; poi è subentrato il sollievo per il successo militare degli israeliani, per quanto il suo giudizio sullo stato d’Israele sia critico. Ma questa è un’altra storia ancora.
Nelle lettere seguenti il nome di Meyer è presente, anche se non più con la medesima impellenza dello scambio epistolare iniziale.
Ma non è solo Levi a interloquire con Meyer.
Nel settembre del 1967 il chimico tedesco, che nel corso degli ultimi anni si era dato a studi filosofici, scrive un lungo commento al libro di Améry, Intellettuale a Auschwitz (Jenseits von Schuld und Sühne); lo invia a Hety, che lo fa avere a sua volta ad Améry. La risposta dell’autore a Meyer è cortese ma secca, e contiene un giudizio su Primo Levi: l’autore di Se questo è un uomo ha una maggior disponibilità al perdono perché italiano e perché non ha vissuto la carcerazione come Améry. Lui, ribadisce, è di origini tedesche e per farsi capire usa una metafora: è ben diverso se il divieto d’ingresso in una locanda viene opposto dall’oste a uno straniero o a qualcuno che frequenta abitualmente quel locale.
Nel 1976, a distanza di anni, Hety con l’aiuto di una amica italiana traduce in tre fine settimana Vanadio in tedesco. Levi glielo ha inviato chiedendole un parere: la famiglia Meyer leggendolo si sentirà ferita? Hety risponde il 20 febbraio 1976: sì, la famiglia del chimico della Buna potrà sentirsi punta sul vivo, tuttavia crede che sarà difficile che leggano il libro una volta tradotto. Aggiunge anche di essere rimasta sorpresa nel notare quanto Levi sia stato critico nei confronti di Müller-Meyer, molto più critico di quanto non avesse notato all’epoca della loro corrispondenza. Non l’ho forse ascoltata con sufficiente attenzione? si domanda Hety colpita dalla durezza del suo amico italiano. Ricorda un episodio, quando in un viaggio in Germania si erano incontrati e Levi aveva telefonato a Meyer; le era parso allora che Levi avesse gradito la conversazione, anche se dopo le aveva confessato di aver paura d’incontrare Meyer: temeva che si mettesse a piangere vedendolo. Ora si rende conto di una cosa: quella che allora era una paura, forse era una cosa diversa, «di tutt’altra natura». Cosa fosse non lo dice.
Ma torniamo un po’ indietro, al momento della scomparsa di Meyer, di cui Levi scrive a Hety nel gennaio del 1968. Si dice dispiaciuto, ma confessa anche di aver seguito i tentativi del chimico tedesco di esorcizzare il passato con una sorta di impazienza, «senza la reale volontà di essergli di aiuto». Tutto è andato per sempre. Hety in una lettera successiva gli rivela che il 13 dicembre Meyer è morto probabilmente per infarto. Quando lo ha saputo il suo pensiero è andato subito al mancato incontro con Levi: che peccato, scrive, abbiamo sprecato una occasione unica, poiché non si deve rimandare nulla se si può fare del bene a una persona. Chiede all’ex deportato se non rimpiange di aver chiesto a Meyer di attendere fino a primavera per rincontrarsi e qui emerge un dettaglio che non troviamo in Vanadio: Levi e Meyer si erano probabilmente incontrati. Hety scrive che Meyer desiderava un altro incontro con Levi. Ma c’è stato davvero questo incontro o Hety si riferisce a quella telefonata, a quel parlarsi direttamente nella cornetta, senza la mediazione della scrittura? Possibile. Se è vero che Primo Levi ha incontrato almeno una volta Meyer fuori dalla scrittura e gli ha parlato, almeno al telefono, così non è accaduto per il dottor Müller in Il sistema periodico. Qui, nella finzione, il rifiuto del nemico resta fermo, come l’elemento chimico vanadio che è raro, duttile, ma anche duro. La letteratura come invenzione della realtà è forse più realista della realtà medesima?
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