Gli eteronimi di Pessoa come modelli di scrittura

I lettori che provano a raccontarsi creando alcune versioni differenti di sé

Fernando Pessoa

Quando i lettori che provano a raccontarsi creano alcune versioni differenti di sé, intenti a scrivere e a volte a fingere, e attraverso gradi imprevisti di finzione, si svelano meglio di quando scrivono ciò che pensano sia vero. È meno complicato di quanto non sembri
Ne avevamo parlato, in modo diverso anche qui: Riconoscere l’autore implicito ci rende lettori migliori.

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A proposito di un libro prezioso di Paolo Collo, Il mio nome è Legione. Fernando Pessoa e gli Altri, Scorzé (Ve), Amos edizioni, 2024, dedicato agli eteronomi dello scrittore portoghese, hanno scritto sia Michele Mari su Robinson del 16 febbraio, sia Massimo Tallone su Tuttolibri del 1 febbraio.

Michele Mari scrive che Pessoa, “come chi sente le ‘voci’ o dialoga con amici immaginari, ha creato attorno a sé e dentro di sé un mondo fittizio; ma attenzione, fittizio non vuol dire falso, vuol dire che il vero può diventare letteratura solo se espresso nei modi (retorici, ludici, teatrali: appunto fittizi) dell’arte: ‘il poeta è un fingitore’, recita la poesia più celebre di Pessoa, ‘finge così completamente /che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente’”. Scrive ancora Mari che “Possiamo dunque immaginarci l’autore come un campo attraversato da forze che solo in minima parte dipendono da lui, secondo un paradigma di alienazione che ha avuto meravigliose epifanie in alcuni personaggi di Hoffmann, dal maestro Kreisler al gatto Murr. ‘Conobbi le amicizie, udii dentro di me le discussioni e le divergenze di opinioni’, scrisse Pessoa nella Lettera sugli eteronimi, ‘e in tutto ciò mi sembra che io, creatore di tutto, fossi quello che era meno presente. Direi che tutto accadde indipendentemente da me’”.

Tallone invece dice: Prendiamo il titolo del libro di Collo, che è “cavato dal Vangelo di Marco: Il mio nome è Legione. In Marco, la frase viene pronunciata da un uomo posseduto da spiriti impuri, da un indemoniato, e allude alla quantità di ‘presenze’ che l’uomo ospita. Qui ci sarebbe di che riflettere per ore. Andiamo per gradi. Da un lato, quel «…siamo in molti», pronunciato dall’indemoniato, si sovrappone con precisione alla condizione di Pessoa. Dall’altro, è pur vero che il parallelismo sembrerebbe finire qui: la legione di ‘esseri impuri’ che abita l’uomo del brano evangelico non dovrebbe avere parentele con la legione di ‘autori’ che Pessoa ospita al suo interno.

Ma è davvero così? Pessoa ha ‘posseduto i suoi eteronimi o è stato posseduto da quelli? E se fosse vera la seconda, allora potremmo pensare che il poeta abbia combattuto e (forse) perso la battaglia contro i suoi eteronimi, affidando all’alcol (paratesto: la foto al bar nel volume di Collo) la speranza di tenerli a bada o di dimenticarli? Detto in altro modo: gli autori a cui ha dato albergo dentro la sua mente hanno cercato di prevalere su di lui? La risposta, è chiaro, non l’avremo mai, sicché la domanda resterà generativa.”

Nel 2012 Collo ha curato la traduzione dell’edizione critica di Il libro dell’inquietudine per Einaudi.

Commenti

Una replica a “Gli eteronimi di Pessoa come modelli di scrittura”

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