In taxi con Cheikh Ahmadou Bamba

Viaggio in Senegal (I). Dove si parla di religione, di tolleranza, di Sufi, di bambini sfruttati, di Senghor, di istagramizzazione degli sguardi

Gorèe, Dakar Senegal - foto di Luigi Gavazzi

Il Taxi, giallo-stinto e nero-grigiastro, è entrato lentamente nella stazione di servizio ma non si è fermato alla pompa di benzina; con una manovra agile e precisa si è infilato in retromarcia in un capanno che separa il rettangolo di asfalto dalla vasta spianata di laterite che qui è di un arancione più intenso di come era sembrato altrove.

Il tassista ha incollato il grande adesivo al centro del parabrezza. Approfitta della trasparenza di parte del volto, circondato dal bianco copricapo, e può guidare con disinvoltura.

Ho ricordato che anche il nostro tassista nella notte di Dakar aveva l’adesivo (sul vetro posteriore) e ho chiesto all’amico di Mirko, un po’ ingenuamente e con una fastidiosa e goffa traduzione del pensiero che avevo in testa: “Qui est l’homme dessiné sur le pare-brise du taxi?”. Mi guarda e e poi guarda a terra. Scuote la testa, sorride.
Il ritratto bianco e nero è presente anche sulle pareti della boutique di frutta e verdura davanti al quale Massilla ha fermato il furgone Toyota che porta in nostro gruppo di toubab a caccia di impressioni ad effetto sul Senegal. Sono giorni che vediamo il ritratto.

“Il est Cheikh Ahmadou Bamba”, risponde dopo qualche secondo, ancora sorridendo, l’amico di Mirko.

Cheikh Ahmadou Bamba è il fondatore della confraternita sufi dei Mourides, la più importante del Senegal.

Ora che quel volto ha un nome, mi sembra di poter aprire uno spiraglio per capire quanto la sua storia e il seguito che ha nel paese, soprattutto fra i Wolof, segnino la vita quotidiana.


Alcuni pezzi del mosaico cominciano a mettersi insieme?

Le tre fratellanze sufi del Senegal – Qadiri, Tijani sono le altre due – hanno radicato nel paese una versione tollerante dell’Islam: lo si legge sulle varie guide e in diversi articoli che ho incrociato in queste settimane. Il che è anche una buona cornice per inquadrare la convivenza pacifica e la relazione cooperativa nei villaggi fra musulmani e cristiani che, a noi bianchi alla ricerca di buone vibrazioni da viaggiatori “responsabili”, pare sia piuttosto sorprendente. Comunque sia, va ben oltre gli schemi culturali islamofobici che hanno occupato tanto spazio pubblico e immaginario in questo scorcio di secolo nei paesi europei e negli Stati Uniti. (Anche se, forse dobbiamo tenerlo a mente, i cristiani sono pochissimi complessivamente in Senegal, poco più del 4 percento – fonte: Encyclopedia Britannica –  https://www.britannica.com/place/Senegal), ma del resto, il primo presidente del Senegal indipendente, Léopold Sédar Senghor, era cristiano (su questo torniamo fra un po’).

Convivenza sì diceva. Per esempio, la scopriamo a Mar Lodj, nel delta del Saloum, dove la guida locale, come altri suoi colleghi, ci tiene, e lo dice più volte: “Partecipiamo tutti, anche noi cristiani, alla costruzione della nuova moschea; e quando c’è da riparare la chiesa, i musulmani ci aiutano. Quando facciamo le feste sono le donne musulmane che cucinano, così le nostre donne non devono lavorare per preparare il cibo; e succede il reciproco con le feste islamiche”

Dovremmo sentirci bene anche pensando che Cheikh Ahmadou Bamba (1853-1927) ha edificato la fratellanza attorno a idee e pratiche come l’istruzione (taalim), l’educazione (tarbiyya) e la formazione per la vita (tarqiyya). La prima però corrisponde all’insegnamento religioso e tradizionale delle scuole coraniche, mentre le altre due dovrebbero rispondere ai nuovi obiettivi della modernità: “La tarbiyya si basa sulla sottomissione volontaria del mouride a un maestro. Dà priorità all’azione e mira a correggere i seguaci, ad esempio incaricando i ‘nobili’ (geer) di svolgere i compiti assegnati ai castrati (ñeeño) per insegnare loro l’umiltà. Include anche la predicazione e gli scambi informali. Durante la tarqiyya, che segna la fine dell’insegnamento, il discepolo aiuta il suo marabutto a gestire il suo patrimonio, che a sua volta lo introduce alla vita reale e gli insegna come affrontare i rischi della vita quotidiana.” Questo virgolettato, che si trova su Wikipedia.fr., non mi lascia tranquillo. E poi non riesco ad afferrare la presenza dei culti animisti e la loro convivenza con Islam e cristianesimo. Ricordate i vari baobab sacri?


C’è anche il pellegrinaggio annuale – il Grand Magal  alla città santa di Touba, cuore spirituale della Muridiyya, nel Sahel senegalese. Ci vanno oltre quattro milioni “senza spendere niente”, come dicono i seguaci di Cheikh Ahmadou Bamba. È una festa di canti, balli, vestiti colorati, felicità; si cucina per giorni e giorni prima che arrivino i pellegrini, per sfamare tutti. Si preparano giacigli improvvisati per dare a tutti il riposo. Tutto gratuitamente. Con grazia. Tutti devono poter compiere il pellegrinaggio.

Su “Africa” (“La rivista del continente vero”) avevo letto che “la Muridiyya è la confraternita sufi più popolare in Senegal e ha impresso all’islam locale quel carattere mistico, aperto e pacifista che riempie di meraviglia chiunque vi si accosti”. Sulla rivista scrivono anche che la Muridiyya è l’unica confraternita autoctona del Senegal e la sua storia si intreccia con la resistenza locale al colonialismo e lo sviluppo della coltura dell’arachide. Cheikh Ahmadou Bamba aveva un’idea non violenta di lotta anticoloniale. E i francesi gliel’hanno fatta pagare, con l’esilio in Gabon (il Grand Magal celebra il suo ritorno dall’esilio, nel 1902).

Altri pezzi del mosaico sono ovviamente i Baye Fall. Ce ne hanno parlato Claudio e Mirko a Gorée, dove alcuni Baye Fall vivono nei sotterranei della piattaforma di cemento sul quale sorge il grande cannone francese. L’enorme pezzo da guerra venne piazzato per difendere l’isola e tutta Dakar dai possibili attacchi inglesi durante l’età dell’imperialismo coloniale; ma era anche un monito per i colonizzati della potenza della Francia pronta a schiacciarli in caso di rivolta. Gorée è insieme un simbolo dell’immenso, incommensurabile crimine plurisecolare della tratta degli schiavi ma anche della rinascita anticoloniale. Nella confraternita della Muridiyya, i Baye Fall mi sembra siano, per farla breve, una sorta di componente speciale, con carisma e prestigio. Si vestono con abiti di patchwork colorati, portano i dreadlock e vivono dei contributi degli altri fedeli; e a Touba intonano gli Zikar, preghiere in forma di canti.


I pezzi del mosaico, tuttavia, non vanno mai a posto del tutto.

Qualcuno accenna ai talibé, i bambini affidati alle scuole coraniche dei marabout, “i maestri del corano”: ci si confonde. La signora Bineta nella cui casa dormiamo a Sokone – è alla guida di una sorta di airbnb locale autogestito dalla comunità, dove varie abitazioni ospitano gruppi di turisti – dice che i bambini poveri vengono adottati dai marabout che gli insegnano il Corano, anche se non vanno a scuola. Il Corano, ribadisce, indicando l’iscrizione sulla trave che regge il cancello della sua grande casa. 

Ma che relazione è quella dei talibé con i marabout?

Una risposta inquietante la troviamo a M’bour. Arriviamo alla Maison des enfants nel pomeriggio dopo che il furgone guidato da Massilla vaga per un po’ sulle strade secondarie in laterite di questa città che, vista dai finestrini, sembra solo un enorme mercato.

La Maison è ordinata, intonacata di giallo e costruita nello stile degli edifici comunitari del paese: tre ali lungo le quali corrono i porticati e dalle quali si accede ai vari ambienti: docce, scuola, mensa. La volontaria italiana ci racconta la fatica e la difficoltà di aiutare i talibé: bambini poveri affidati dalle famiglie ai marabout: vengono sfruttati e mandati per le strade a raccogliere elemosine. Ci parla di maltrattamenti, denutrizione, vite senza futuro. E di permessi da chiedere ai marabout anche per offrire una doccia o un pasto a questi bambini. Le famiglie si tolgono una bocca da sfamare, e forse credono davvero che il loro bambino imparerà il Corano, si avvicinerà ad Allah.

Il sito web di Manitese dice che il fenomeno dei talibé è sfruttamento organizzato che riguarda vari paesi dell’Africa occidentale, con traffici transfrontalieri di bambini.

Giulia Inguaggiato, cooperante in Guinea-Bissau ha scritto che i talibé vengono 

“reclutati in massa da villaggi e città e mandati in Senegal, Gambia e Guinea-Conakry con la scusa di acquisire i precetti coranici. Dinnanzi alla precarietà dell’insegnamento che connota la Guinea-Bissau, e in un contesto di forte povertà delle comunità rurali, molte famiglie lasciano partire i propri figli con la speranza di assicurargli una migliore educazione religiosa all’estero. Tuttavia, le famiglie sono ignare del vero scopo del viaggio e delle condizioni di vita in cui verseranno i minori una volta partiti. Giunti nel paese di destinazione i bambini, di età compresa tra i 5 e i 15 anni, vengono infatti lasciati a mendicare nelle strade da supposti maestri coranici che pretendono giornalmente una somma di denaro. Mangiano poco e male, molto spesso solo attraverso la carità che ricevono nelle strade, indossano stracci sporchi e logori e dormono sui marciapiedi. Inoltre, quando non riescono a consegnare alla fine della lunga giornata di mendicanza la somma di denaro richiesta, vengono picchiati e abusati.”

Sufì, tolleranza, convivenza, pellegrinaggi, guide spirituali, sfruttamento dei bambini. Vertigine.


Ecco: per complicare ulteriormente la faccenda, vale ricordare che Senghor (1906-2001), il presidente poeta, uomo illuminato eletto all’Assemblea nazionale a Parigi nel 1946, nell’edificare il Senegal indipendente volle l’introduzione nella costituzione della libertà religiosa, ma accettò un compromesso con la struttura tradizionale del potere nelle aree rurali, fondata sui leader islamici, i marabout. In cambio di un sostanziale consenso al nuovo stato e alle riforme che hanno modernizzato il paese, Senghor concesse loro un impulso economico formidabile garantendo l’aumento del prezzo delle arachidi (la principale coltura del paese) e li inserì nel processo politico. Fu un compromesso che garantì la stabilità del nuovo stato indipendente, evitò rischi di guerra civile, ma che fu criticato da molti compagni di partito di Senghor – Bloc démocratique sénégalais – perché lasciò quasi immutata la struttura di potere conservatore nelle campagne.

Compromesso gravido di conseguenze fu anche la riforma del diritto civile nel Senegal, ispirato da quello di Francia, ma che, sempre grazie alla mediazione di Senghor, garantì che il Code de la famille riconoscesse sia il matrimonio monogamico che quello poligamico. Con evidenti pesanti per la condizione delle donne.

Su Senghor e l’idea di negritudine e di métissage, così importante per i movimenti anticoloniali d’Africa e i caraibi torniamo nei prossimi giorni.


Come ci consiglia indirettamente Walter Benjamin (Il narratore, Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, 1936) non dovremmo cercare subito di spiegare, dovremmo prima lasciare che si formino i racconti. Aspettiamo prima di spiegare. Forse non ci riusciremo mai a spiegare

D’altra parte, Claude Lévi Strauss settant’anni fa ci ha confessato che odiava i viaggi e gli esploratori proprio nella prima riga di uno dei suoi libri più belli e appassionanti, che è un resoconto di viaggio in America (Tristi tropici, 1955). Un libro che andrebbe letto prima di qualsiasi viaggio, prima anche, credo, di una passeggiata in una delle nostre città, in un quartiere che conosciamo poco o in uno che crediamo di conoscere. 

Diceva Lévi Strauss nel memorabile primo capitolo, “Fine dei viaggi”, che in quegli anni del dopoguerra le vetrine delle librerie erano piene di libri con resoconti di spedizioni e di album di fotografie, “dove la preoccupazione dell’effetto è troppo preponderante perché il lettore possa valutare la testimonianza che gli è offerta. Anziché sollecitato nel suo spirito critico, il lettore richiede sempre più questo genere di cibo e ne ingurgita quantità prodigiose.” In questi settant’anni il turismo è diventato esperienza di massa e siamo tutti, anche quando non vorremmo e non ce ne accorgiamo, alla ricerca dell’effetto – che ora è soprattutto effetto social. Istagramizzazione dei viaggi.

Lévi Strauss scriveva nel mondo del tramonto degli imperi coloniali, noi ci muoviamo in quello del neocapitalismo imperiale, portando con noi, inevitabile, il peso di quel passato e di questo presente, anche nei gusti estetici e in una superficiale follia che pensa di racchiudere tutto nel telefono. Sappiamo anche però, che siamo in un mosaico gigantesco e disordinato e che ci dobbiamo stare dentro.
Forse dovremmo soltanto essere ancora più smarriti, dubbiosi, attirati dai punti ciechi e sempre all’ascolto.

(Alla prossima)

[Foto in apertura: Gorèe, ottobre 2024 (mia)]

Commenti

Una replica a “In taxi con Cheikh Ahmadou Bamba”

  1. Avatar marisasalabelle

    Il mondo è complicato… e dappertutto ci sono contraddizioni

    "Mi piace"

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