Quando ci occupiamo su questo sito delle pratiche di scrittura autobiografica è importante sottolineare che l’obiettivo principale che abbiamo in mente è favorire la scrittura di sé da parte di tutti coloro che lo desiderano.
Lavoriamo per esprimere noi stessi senza farci intimidire dagli ostacoli causati dal timore di non saper usare in modo adeguato la lingua scritta, dai dubbi frutto della consapevolezza di non aver mai espresso per iscritto i nostri ricordi, le nostre storie e sentimenti.
Vorremmo dunque evitare l’insidioso ostacolo posto sul nostro cammino da chi pensa che abbia senso scrivere solo se si nutrono ambizioni letterarie.
Sottolineata questa fondamentale premessa è importante aggiungere però che il nostro percorso prevede l’impiego di scritti di altri autori, specie quelli che ci sembrano molto bravi e vicini alle nostre sensibilità.
In altri termini la lettura della grande letteratura è fondamentale anche per il nostro lavoro autobiografico, (oltre che per tutto il resto della nostra vita).
La letteratura è prima di tutto ispirazione cognitiva ed emotiva – va da sé; ma è anche laboratorio di sperimentazione degli strumenti tecnici – che sono soprattutto quelli individuati dalla narratologia – usati da scrittrici e scrittori per le loro opere; strumenti il cui uso consapevole può esserci di grande aiuto.
Quindi da un lato non ci facciamo intimidire da chi è molto più bravo di noi, perché il nostro obiettivo è trovare le forme e le modalità nostre per esprimere la nostra unicità di esperienza, di relazioni, di memoria. Dall’altro però sappiamo che per questo nostro lavoro le forme messe in pagina dagli artisti della scrittura ci possono essere davvero utili per essere più precisi, più coraggiosi, più audaci nel raccontarci.
Su questa strada troveremo dunque parecchi scrittori e critici che ci daranno una mano ma dai quali non dovremo mai farci dissuadere nella ricerca di noi stessi, di ciascuno in quanto autore, magari modesto, ma unico, originale. Come unica è la vita di ciascuno.
Prendete per esempio quanto scrive Walter Siti a proposito della tendenza in buona parte della narrativa contemporanea a scrivere storie “vere”, che hanno le storie degli autori al centro della scrittura o le storie di famiglie, o le biografie e autobiografie scritte come se fossero romanzi ecc.
Scrive Siti1 che «in uno dei passi più famosi della Poetica, Aristotele distingue tra il lavoro dello storico e del poeta: compito dello storico è raccontare ciò che è accaduto, mentre spetta al poeta «non narrare i fatti accaduti ma quelli che potrebbero accadere», e ci ricorda che Aristotele aggiunge: “secondo il verosimile o il necessario”. «Il modo condizionale è dunque il padre della fiction».
«Perché» – si chiede Siti – «Aristotele aggiunge al suo condizionale questo “secondo il verosimile o il necessario”? Perché esige che la poesia (che nel suo caso è epica e soprattutto teatrale) coinvolga l’uditore, lo spettatore, e per far questo dev’essere credibile, senza identificazione niente catarsi; ma in più il testo dev’essere dotato di una specie di super-vita, su come stanno le cose e su come non possono non evolvere necessariamente secondo logica storica o psichica – deve insomma partire dal ‘fatto’ (che nel suo caso è il mito) e dare a quel fatto un valore universale; se no come sarebbe riuscito Sofocle a suggestionare Freud?»
Bisogna poi leggere la faccenda, continua Siti, «tenendo conto di un ulteriore elemento. Come mai certe “storie vere” le sentiamo come universali e altre no? Non tutte le non-fiction sono uguali. Conta molto il demone dell’analogia: un noir dalla trama al limite della credibilità può dirci molto sullo violenza delle periferie, una science fiction in un futuro estremo può rivelarci il nostro attuale spossessamento di realtà o la perenne fallibilità della giustizia, una storia di vampiri può parlarci dello ius sanguinis o della natura del Tempo. Si tratta di adeguatezza tra il fatto raccontato e la specola da cui lo scrittore racconta, cioè si tratta del suo stile. La capacità universalizzante dello stile è di per sé una forma di condizionale (il fatto è accaduto ma appartiene a una costellazione più grande che potrebbe essere quella sotto cui viviamo). Chi se ne importa a quel punto se l’autore utilizza la propria autobiografia in modo diretto o indiretto, se fa come Rousseau nelle Confessioni o come Flaubert con Emma Bovary? Forse oggi si sente il bisogno di aggrapparsi ai fatti accaduti perché l’immaginazione prevalente o è troppo fatua o è troppo spaventosa. Servirebbe una disciplina dell’immaginazione, per investire il proprio capitale immaginario in opere pubbliche.»
Ecco, senza farci opprimere da riferimenti alla grande letteratura quando scriviamo di noi stessi, potremmo dire che quel che conta è il nostro lavoro per trovare ciascuno il proprio stile, unico, non una replica dello stile di qualcun altro, anche se quello stile ci piace.
Il primo obiettivo che dovremmo dunque raggiungere scrivendo è trovare la nostra voce, ciascuno la propria, che ci distingua. Sarà essa, la voce, uno degli strumenti più importante che definirà il nostro stile, ci farà scrivere della nostra vita in modo autonomo e non dettato da altri né copiato da altri e che renderà le nostre storie, in modi diversi, universali.
Torneremo presto su questa ricerca della voce.
- C’era una volta la grammatica dell’immaginazione, Domani, Finzioni, 19 agosto 2023. ↩︎

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