Torno su Un cuore così bianco di Javier Marìas, libro di cui tanto si è discusso e parlato su questo blog. L’ho appena finito e volevo scambiare le mie impressioni con voi. Inizio da pagina 13:
“Una volta sposati, all’uscita del cinema i passi si dirigono insieme verso lo stesso posto (andando fuori tempo perché ormai sono quattro i piedi che camminano) non perché io abbia deciso di accompagnarla e nemmeno perché abbia l’abitudine di farlo e credo sia giusto e corretto farlo, ma perché ora i piedi non esitano sulla strada bagnata, né decidono né cambiano idea, né possono scegliere, o pentirsi: ora non c’è dubbio che si va dalla stessa parte, che questa sera lo si voglia o no, o forse era ieri sera che non lo volevo”.
E’ prima di tutto un libro sulla solitudine, sulla solitudine del mondo visto dal cuscino, sulla solitudine del matrimonio come condizione ontologica. Sull’incapacità – impossibilità – di comunicare con l’altro (e per l’altro con noi), sulla condanna di ognuno di noi di essere altrove (altrove da lì, non necessariamente con qualcun altro), in mare aperto, dove non si scorge la fine dell’orizzonte o dove non si sa quando si scorgerà la terraferma.
Lui ama sua moglie? Alla domanda, che è stata posta da un lettore in un altro post, io risponderei con questa frase di Kierkegaard:
“Un soldato alla frontiera dovrebbe essere sposato? Alla frontiera dello spirito, egli può sposarsi quando lotta giorno e notte come avamposto non contro i Tartari e gli Sciti, ma contro le orde selvagge di una malinconia essenziale? Può sposarsi a questo avamposto? Sebbene non combatta giorno e notte e goda di tregue abbastanza lunghe, non sa mai quando la guerra riprenderà perché non può vedere un armistizio in questa bonaccia”.
Juan la ama come si può amare adesso – e qui sta il talento di Marìas – (non cinquant’anni fa, o un secolo fa e via a ritroso) ma oggi, in questi tempi, come amiamo e come siamo amati dagli altri. Juan ama Luisa nel cambiamento, quindi sì, la ama ma nei piccoli dettagli, la sua nuova pettinatura, i nuovi mobili di casa, i vestiti appena comprati. Non può amarla per sempre perché non esiste più il futuro astratto, perché non è dato saperlo, perché non è nelle sue possibilità. Non è, non riesce e non sarà mai Jay Gatsby, non conosce l’amore universale, pieno, certo. Non perché non voglia, anzi (“E adesso?” Si chiede per tutto il libro, non si rassegna a quell’amore parziale, finito, reale) ma perché quell’amore non esiste più. Per nessuno. O meglio, era così anche ai tempi di Omero, ma ora possiamo dirlo.
Luisa ha già capito tutto anzi più che capirlo, sembra che lo sappia e basta. Non ha bisogno di verbalizzarlo, si muove leggera nel cambiamento. Lei nemmeno se lo pone il problema dell’assoluto, Anna Karenina sembra sua nonna ed Emma Bovary una mamma fragile e un po’ sventata, lei no, vive nel presente. Quando afferma: “E’ ovvio che vorrei saperlo se un giorno decidessi di ucciderrmi”, sta dicendo a suo marito che sa che un giorno lui potrebbe lasciarla, ma nel dirlo, e nel tono in cui lo dice, sa anche che magari sarà prima lei a lasciare lui. Ma non può sapere se accadrà, né tantomeno quando. Vuole solo fargli capire che lo sa e che questa consapevolezza è l’unico modo in cui si può amare qualcuno.
Insomma, nessuna certezza, l’amore è un gioco di ruolo, l’importante è parlare (“il matrimonio è un’istituzione narrativa”) e il prossimo che appoggerà la testa sul cuscino non sarà migliore di chi c’è adesso. O forse no, ma questo, dice Marìas, non è dato saperlo: “il nostro pensiero è oscillante e ambiguo e non tollera che non ci siano sospetti, per lui ci saranno sempre zone d’ombra e sempre pensa con un cervello cagionevole” (brainsickly – esiste un’espressione più efficace?).
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