Chi ha letto Voci del verbo andare, il romanzo di Jenny Erpenbeck, scrittrice tedesca (nata nel 1967), pubblicato in Germania nel 2015 e in Italia da Sellerio nel 2016, ricorderà come il protagonista Richard decida di preparare una specie di questionario che lo aiuti a imparare a conoscere delle persone che gli paiono estranee: sono rifugiati africani, ospitati in un edificio di accoglienza improvvisata a Berlino.

Richard è un professore universitario in pensione, è solo, ricorda la moglie morta da poco e anche un’amante. Insegnava letteratura classica, viveva nella ex Germania Est, fino al 1989. Si tiene attivo, gira per la città e rimane stupito davanti a questi ragazzi in arrivo dalla Nigeria, dal Niger, dal Ghana, giunti in Europa alla ricerca di una vita migliore e in fuga dalla miseria e dalla violenza.
Richard vive in questi nostri anni incerti, gli anni del trattato di Dublino, dell’ostilità impaurita davanti a chi arriva nei nostri paesi ricchi.
Il questionario, si diceva. Richard vuole conoscere, sapere avvicinare questi giovani arrivati da lontano.
Vi trascrivo qui alcune delle domande che Richard, dopo aver letto parecchio, i giornali, le riviste ma soprattutto i libri, gli atlanti, si prepara, per conoscere. Le domande precedute da alcuni dei pensieri di Richard, in quei giorni in cui si prepara a conoscere.
Ecco la pagina (56-57):
Per capire in che cosa consista il passaggio da una vita quotidiana interamente occupata e prevedibile alla vita quotidiana aperta in ogni direzione, esposta per così dire alle correnti, ossia quella che conduce un profugo, Richard deve sapere come stavano le cose all’inizio, come stavano a metà e come stanno adesso. Là dove la vita di una persona confina con l’altra vita della stessa persona, deve pur rendersi visibile il passaggio che, ad un esame attento, di per sé non è nulla.
Lei dove è cresciuto? Qual è la sua lingua materna? Quale religione professa? In quanti eravate in famiglia? Com’era l’alloggio, la casa in cui è cresciuto? Come si sono conosciuti i suoi genitori? C’era la televisione? Dove dormiva lei? Che cosa c’era da mangiare? Da bambino qual era il suo nascondiglio preferito? È andato a scuola? Che vestiti indossava? Avevate animali domestici? Ha imparato un mestiere? Ha già messo su famiglia? Quando ha lasciato il suo paese? Perché? Ha ancora contatti con la sua famiglia? Qual era la sua meta quando se ne è andato? Come ha preso congedo? CHe cosa ha portato con sé quando è partito? Come si immaginava l’Europa? Che cosa c’è di diverso? Come trascorre le sue giornate? Che cosa le manca di più? Che cosa desidera? Se avesse dei figli, e crescessero qua, che cosa racconterebbe loro del suo paese d’origine? Riesce a immaginare di invecchiare qui? Dove vorrebbe essere sepolto?
Dovremmo anche noi avvicinare queste persone con le domande che vorremmo far loro. Ascoltare le loro risposte e le loro domande.
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