Ma allora, quando decidiamo di parlare di un libro?
Prima di provare ad abbozzare tre risposte a questa domanda, va ricordato che esse dovranno sempre fare i conti con le risposte date quando abbiamo parlato dei motivi per non parlare di un libro.
1 – Il punto fondamentale potrebbe suonare così:
mi azzardo a parlare di una lettura per me importante perché la relazione che si stabilisce con il libro, le nuove idee, le consapevolezze, le nuove percezioni che si generano sono parti importanti del processo continuo e cumulativo di creazione della mia personalità.
È un processo unico: ha punti di contatto con altri lettori, ovvio, ma esattamente così è solo mio. Un processo che costruisce, un processo davvero “creativo”.In altre parole, è il motivo che ci fa preferire, in un gruppo di lettura, un lettore che esprime se stesso nella lettura al lettore che scimmiotta la critica letteraria.
Quando avverto questo processo, avverto anche il bisogno di esprimerlo.
Vi pare possa funzionare il ragionamento?
Qualche precisazione:
* Deve essere una lettura che mi fa entrare nello spazio cognitivo ed emotivo creato dall’autore. Riesco a coglierne le parti sostanziali, le sfumature; ad assumere su di me le ambivalenze, le ambiguità, i dubbi. Forse anche le certezze. In questo spazio creato dall’autore, il lettore creativo colloca dunque anche la propria personalità; il proprio punto di crisi, la propria esperienza.
Un buon esempio di questo modo di parlare di una lettura l’ho trovato – fra i molti esempi che si potrebbero citare – in un recente articolo su Slate dedicato ai Dubliners di James Joyce. L’autore del pezzo ricorda di aver letto la serie di racconti di Joyce più e più volte, fra l’altro perché essi non perdono mai, «la capacità di trascinarmi nello loro spazio narrativo chiuso, con tutta la precisione crudele e la commedia umana che contengono, tutta la loro bellezza e la loro cupezza, la terribile evocazione della noia e della disperazione e della bramosia e del sentirsi intrappolato.»
E se vivi a Dublino, se tu stesso sei un Dubliner, non importa quante volte hai letto il libro, esso rivelerà sempre qualcosa di profondo e di essenziale e di non realizzato a proposito della città e dei suoi abitanti. In un modo o nell’altro, vi colpirà sempre […]
E più avanti:
«Tutti nei Dubliners sono intenti a pensare a un modo per fuggire dalla trappola, alcuni addirittura si danno da fare per andarsene; tutti sognano una versione migliore di se stessi, in qualche luogo migliore. Questi racconti sono pieni di una vaga idea di magia legata a questi luoghi migliori […] ma quelle che sembrano possibilità di fuga si rivelano sempre passaggi di un ulteriore reclusione, di una trappola che si chiude.»
Ora, questa sensazione che grava sui Dubliners si avverte davvero a ogni lettura. Soltanto che ciascun lettore difficilmente può evitare di metterla in relazione con il proprio vissuto personale, i propri sogni e delusioni, le ambizioni realizzate e quelle frustrate, soprattutto con quelle che non ha provato nemmeno a lasciare sbocciare. E soprattutto con il peso avvertito a 20 anni (i Dubliners sono l’opera dei vent’anni di Joyce, anche se riuscì a pubblicarli solo nel 1914, giusto cento anni fa) fra spinte a fuggire e ambizione di scoprire davvero quello che aveva intorno. Ciascun lettore con una storia intima e del tutto personale.
Quindi, (direi ovviamente) non vale tutto.
È sempre e comunque il libro il centro di gravitazione, con il libro devo stabilire la relazione intensa.
Non è il caso di piegare la lettura a ogni interpretazione “personale”. Dimenticando il testo. Certo è legittimo allontanarsi, piegare il significato fino allo stremo. E tuttavia, in questo caso mi risulterebbe meno facile parlarne a qualcuno, almeno in quanto frutto di lettura.
* Altra precisazione: una lettura alla quale attribuisco il merito di contribuire alla creazione della personalità è evidentemente una lettura che comporta il rischio del narcisismo. Ma il narcisismo, come ci spiega efficacemente Luca Ferrieri in fra l’ultimo libro letto e il primo nuovo da aprire (Olschki, 2013), non puoi essere mai del tutto allontanato dal regno della lettura. “Attraverso il mio libro,” scrive Proust – citato in nota da Ferrieri – potevo dare ai lettori “il mezzo di leggere in loro stessi”.
Dunque, nessuna paura del narcisismo che si manifesta ogni volta che leggiamo e, credo, ogni volta che parliamo di un libro letto che abbiamo fatto nostro. Salvo fare attenzione ad alcuni rischi, per esempio lo scivolamento verso “la logica dell’autoidentificazione senza residui, il titillarsi con immagini previamente vaccinate, la ricerca non del dolce ma dell’innocuo”. (Ferrieri, pagina 121-122).
Come antidoto contro la ricerca dell’”innocuo”, direi che ogni tanto, mentre leggiamo e soprattutto mentre ci accingiamo a parlare (o scrivere) di quel che abbiamo letto, conviene ritornare a leggere quel che scriveva Kafka a Oskar Pollak nel 1904: «se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? […] Ma noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazie che ci fa molto male, come la morte di uno che era più caro di noi stessi, come fossimo respinti dai boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi.» (citato da Ferrieri, pagina 121)
Ecco, teniamo conto che Kafka è sempre un po’ duro con noi, quindi senza esagerare con i pugni sul cranio. Ma sono sicuro che ci siamo capiti.
2 – La seconda risposta è meno rilevante anche se la sua incidenza statistica la rende importante.
Parlo di un libro quando vorrei che l’interlocutore mi dicesse quel che ne pensa. Quindi quando la condivisione reciproca è uno degli obiettivi espliciti e previsti della lettura. Per esempio in un gruppo di lettura. Certo si può comunque tacere anche in questa occasione. A volte lo si fa. Ma in genere è un comportamento curioso stare zitti dopo aver letto il libro e deciso di partecipare al gruppo.
Ma in fondo questa è una giustificazione quasi strumentale: conoscere i pareri degli altri. E anche un po’ superficiale. Perché per arrivare a parlare sinceramente di un libro, anche in un contesto come il gruppo di lettura, ci vogliono anche motivazioni più profonde.
3- La terza è quasi ovvia: il libro è così ricco di nuove interpretazioni o visioni del mondo – o di porzioni di mondo – che mi viene spontaneo parlarne con chi immagino possa essere interessato a quella porzione di mondo che l’autore ha reinterpretato o descritto in modo inedito.
Basta così
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