World Press Photo, l’immagine premiata di Samuel Aranda e il rischio estetizzante della fotografia documentaria

Samuel Aranda, World Press Photo 2012
Samuel Aranda, World Press Photo 2012

@Gruppodilettura
Anche quest’anno il World Press Photo ha scelto una grande foto. È un scatto di Samuel Aranda (classe 1979, catalano) preso a Sanaa nello Yemen, il 15 ottobre 2011.

La qualità estetica dell’immagine (è quella che apre questo post) è difficilmente discutibile. Lo scatto di Aranda e le altre foto premiate si possono vedere sul sito del World Press Photo (WPP).

Veniamo al punto: il rischio di rappresentare in modo estetizzante situazioni e storie di povertà, dolore, paura, guerra.

Che è poi il medesimo ogni volta che si affronta una grande foto che è anche il ritratto di un grande dolore. Un tema che attraversa ovviamente tutta la riflessione sulla fotografia di reportage, di guerra o “sociale” che sia. Ne ha scritto su La Stampa Marco Belpoliti a proposito della foto di Aranda e di molte altre di quelle premiate dal WPP:

“Tutte belle foto, ma segnate da questo aspetto manierista che sembra dominare la fotografia contemporanea”.

A ben vedere però, come accennato prima, è un peso che grava sulla fotografia documentaria da sempre. A questo punto in genere si cita il lavoro dei fotografi ingaggiati dalla Farm Security Administration (FSA) negli Stati Uniti negli anni Trenta, per raccontare visivamente, con immagini di impatto simbolico, il travaglio rurale e urbano della Grande Depressione.

Dorothea Lange, Migrant Mother (Wikipedia)
Dorothea Lange, Migrant Mother (Wikipedia)

La foto di Dorothea Lange, “Madre migrante” è spesso usata per illustrare questo esempio; l’immagine dalla composizione perfetta, costruita “per trasmettere il maggior pathos possibile e inserirsi in un’iconografia pre-esistente. Il riferimento più ovvio sono le Madonne con bambino” (Graham Clarke, La fotografia. Una storia culturale e visuale, Einaudi).

Già la Madonna. Che Belpoliti ha richiamato scrivendo della foto di Aranda: “Una pietà a colori, citazione di quadri celebri e sculture che appartengono alla nostra memoria culturale di occidentali”.

Geoff Dyer (autore del bellissimo L’infinito istante. Einaudi) in un articolo del 2009 ha detto che le immagini di Walker Evans sulla povertà rurale negli anni Trenta negli Usa, già negli anni Settanta avevano assunto un fascino, un tono, una lucentezza estetica capaci di dare retrospettivamente un aspetto fascinoso e bello alle vite spesso disperate che Evans aveva registrato con il suo obiettivo.

Richard Avedon, "William Casby, born a slave, 1963"
Richard Avedon, "William Casby, born a slave, 1963"

Evans e Lange e molti altri di quella generazione avevano un orgoglio professionale d’artista per il medium che tanto stavano nobilitando che spesso li portava a un vero distacco “estetico” fra quel che registravano (miseria e disperazione) e il modo (sublime) con il quale lo rappresentavano. Il massimo di questo distacco si nota, sempre secondo Dyer, in una foto di Richard Avedon: “William Casby, Born a Slave, 1963”. La consapevolezza artistica di Avedon dona alla foto una grande fiducia nel proprio potere artistico; in contrasto estremo con l’evidente consapevolezza di essere senza nessun potere, espressa dall’ex schiavo ritratto.

Dorothea Lange, raccontando le circostanze del suo scatto della “Madre migrante” spiega come vide la donna affamata e disperata (siamo nel 1936):

mi avvicinai come attratta da una calamita. Non ricordo come le spiegai la mia presenza o la mia macchina fotografica, ma ricordo che non mi fece domande. Realizzai cinque scatti, avvicinandomi progressivamente dalla stessa direzione. Non le chiesi come si chiamava, né la sua storia… (citato da Graham Clarke).

Lo scatto di Aranda, vincitore del WPP 2012 viene definito dalle agenzie e quindi da tutti quelli che ne hanno scritto, come uno “scatto rubato”. E Aranda stesso lo descrive così:

Quella foto è stata il frutto di un istante. L’esercito stava sparando sulla folla e la gente portava i feriti dentroo la moschea, che veniva utilizzata come ospedale. Ero davanti l’entrata quando ho visto quella donna che stringeva a sé il ragazzo ferito. Non ho avuto neanche il tempo di parlarle, perché li hanno subito portati dentro la moschea. (La Stampa, 11 febbraio 2012).

Il rischio di interpretazioni estetizzanti del mondo e delle sue tragedie, sottolineato da Belpoliti, non è dunque un problema della fotografia di oggi ma di tutta la storia del medium, in particolare dagli anni Trenta del Novecento in poi.
E forse è un rischio che condivide con il reportage scritto e con il documentario, anche se, forse, per la fotografia c’è l’aggravante che molti fotografi, da un certo momento in avanti, hanno cominciato a interpretarsi proprio come artisti.

Non tutta la fotografia documentaria, però, segue questa linea estetizzante, sia nella scelte dei soggetti da fotografare (ce lo ha fatto notare recentemente un lettore indispettito dalle scelte delle “foto dell’anno” fatte dal New York Times), sia nello stile degli scatti e della selezione delle immagini da pubblicare. Belpoliti stesso cita, per quanto riguarda il WPP di quest’anno, un’immagine di Damir Sagolj della Reuters, scattata in Corea del Nord: un’istantanea “che racconta con la sua apparente modestia, invitando l’osservatore a guardare meglio, con attenzione, la condizione di milioni di uomini sotto l’assurda dittatura di Kim-II-Sung”. Una foto che avrebbe, secondo Belpoliti, meritato la vittoria assoluta mentre è stata scelta per uno dei premi secondari.

Damir Sagolj, Pyongyang
Damir Sagolj, Kim Il-sung on a wall in Pyongyang

Ma anche Dyer in uno dei suoi saggi recenti ricorda per esempio l’opera di Jacob Holdt: anch’egli impegnato a ritrarre l’America povera ma senza l’enfasi dei fotografi reclutati dalla FSA quarant’anni prima (Holdt comincia il suo lavoro negli annni Settanta), senza nessuna consapevolezza-pretesa artistica.

Senza il glamour del bianconero anni Trenta e Quaranta di Evans o di Lange o di Margaret Bourke White, senza la consapevolezza di scattare immagini che resteranno nella storia (consapevolezza che i suoi colleghi di tre decenni prima invece avevano) i poveri di Holdt sono evidentemente, esteticamente e senza speranza “poveri”; spesso anche senza residui di dignità: non c’è nessuna vocazione estetica e compiaciuta negli scatti che li possa spingere l’osservatore a definirli belli, pur essendo scatti di grandissima qualità.

Il lavoro di Holdt – racchiuso nel monumentale American Pictures – più che un lavoro per i musei a futura memoria (anche se poi ci è finito anche lui nei musei) è una specie di diario di viaggio fotografico annotato sulla povertà in America, senza pericolo di distrazioni.

Insomma, il confronto fra queste linee della fotografia documentaristica è ancora in corso e entrambi i punti di vista hanno buone carte da giocarsi.

Commenti

3 risposte a “World Press Photo, l’immagine premiata di Samuel Aranda e il rischio estetizzante della fotografia documentaria”

  1. Avatar icittadiniprimaditutto
    icittadiniprimaditutto

    Reblogged this on i cittadini prima di tutto.

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  2. Avatar marinaforlani

    Ciao Luiginter. Avevo visto la foto di Aranda su “Internazionale”. Penso che l’aspetto estetizzante di molta fotografia documentaristica non sia una riprovevole distrazione; se Aranda avesse scattato mentre il ragazzo veniva trasportato dentro la moschea, sciolto dall’abbraccio che alla nostra cultura occidentale ricorda tante “deposizioni” pittoriche e la Pietà di Michelangelo, l’aspetto estetizzante si sarebbe evitato ma si sarebbe persa anche una comunicazione forte, una traccia nella memoria di chi guarda.

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  3. Avatar Vilma

    sono perfettamente d’accordo sul giudizio circa la foto di Aranda vincitrice dell’edizione 2012 del World Press Photo, l’immagine, fortemente simbolica e vagamente impersonale, appare decontestualizzata rispetto alle circostanze entro le quali viene collocata o si la vorrebbe collocare, ben altro dal documento emblematico di un estemporaneo qui-e-ora fermato in una situazione di emergenza come ci viene detto.
    L’evento tragico che vorrebbe essere il tema della foto non c’è nell’immacolata parete di fondo, nei guanti bianchi troppo puliti, nella pelle priva di ferite di un combattente ferito …..
    http://www.artonweb.it/fotografia/articolo35.html

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