@Gruppodilettura
Questo è un piccolo diario (o quasi) su come cerco di mantenere la promessa fatta a me stesso di leggere (finalmente) l’Ulisse di James Joyce. Ed è un diario di un lettore che legge un po’ ingenuamente, un lettore comune, uno dei lettori ai quali pensava James Joyce scrivendo il suo romanzo.
Intanto, come avevo del resto previsto nel post sul proposito di lettura: si tratta di una lettura lunga, lenta, lenta.
Sia per le note difficoltà del romanzo di Joyce,
sia per la lunghezza del testo,
sia per la mia lentezza cronica di lettore che viene tentato dalle digressioni (anche i lettori – lo sa bene chi è affetto da questa malattia-mania di leggere contemporaneamente più libri, riviste, saggi e articoli pescati in rete – digrediscono).
In una di queste digressioni di lettura – che poi proprio una digressione non è, direi una “lettura di accompagnamento” – ho trovato la definizione di “long distance reader“, usata da Declan Kiberd in Ulysses and Us. The Art of everyday life, per definire quei (pochi) lettori “comuni” che si sono affezionati all’Ulisse e che, per superare appunto la “solitudine del lettore da lunghe letture” (altra possibile digressione: qui ovviamente viene chiamato in causa Alan Sillitoe della The Loneliness of the Long–Distance Runner) si incontrano in gruppi dedicati – che hanno anticipato proprio i Gruppi di lettura.
Nel libro di Kiberd – e questo è ancora meno digressivo – viene espressa in modo forte e chiaro
– la natura dell’Ulisse come romanzo per il lettore comune, l’individuo che è parte della “common culture” dei primi trent’anni del Novecento;
– la natura dell’Ulisse come libro che ha per eroe “l’individuo comune” e la sua vita quotidiana piena di meraviglie,
– la forza del contesto irlandese nel conferire valore e significato al romanzo.
Fattori che dovrebbero aiutare a ribaltare il fatto che non siano proprio molti i lettori comuni ad aver affrontato il Bloomsday.
La Common culture che aveva in mente Joyce era quella che spingeva a leggere e usare autori come Shakespeare anche come guida alla vita, a leggerlo con piacere e a rifiutare l’idea che le sue opere fossero solo letteratura per specialisti.
Kiberd ricorda poi a tutti i suoi lettori che l’Ulisse è un romanzo scritto per celebrare la vita quotidiana della gente comune, senza retorica né indulgenze folkloristiche, ma con l’attenzione quasi esasperata per i dettagli e il senso di meraviglia che sta dietro i singoli momenti di una giornata e dentro le vite apparentemente “comuni”.
Proprio in quei decenni, Freud era stato chiaro sulla forza rivelata dalle fantasie inconsce di ciascun individuo: è possibile vedere ogni vita umana come un poema. Tutti noi, secondo Freud – così ci ricorda Richard Rorty in Contingency, irony, solidarity – abbiamo il tempo e gli strumenti per esercitare la fantasia, in particolare lo strumento supremo del linguaggio: la capacità di creare metafore. La forza di usare simbolicamente ogni persona, oggetto, situazione, evento e parola che incontriamo nella nostra vita.
Tutto, dal suono di una parola al colore di una foglia, alla sensazione prodotta dallo sfiorare la pelle di un’altra persona, tutto può servire per drammatizzare e cristallizzare il senso di identità di un essere umano. Ogni “costellazione”, apparentemente casuale delle cose che facciamo e incontriamo può definire il tono di ciascuna vita. Ciascuna “costellazione” può definire il senso al cui servizio una vita può dedicarsi; senza che questo senso sia meno forte solo perché è comprensibile solo alla persona che lo segue. [L’idea è sintetizzata da Richard Rorty in Contingency, irony, solidarity, nel 2° capitolo, “The contingency of selfhood”].
E Joyce nel Bloomsday tutto questo rappresenta.
E poi ovviamente c’è Dublino. Perché la città di Leopold Bloom è assai più di un pretesto. E questa sembra una banalità. Ma Kiberd (che è professore di Letteratura anglo-irlandese allo University College di Dublino), ci ritorna esplicitamente su questa faccenda (Ulysses and us è stato pubblicato nel 2010) e sostiene che il peccato peggiore degli accademici e di molta della critica e degli specialisti – che si sono dati tanto da fare per dare dell’Ulisse un’idea che ha finito con l’allontanare il lettore comune da Bloom e da Stephen Dedalus – consiste proprio nel tentativo di strappare il romanzo dalla sua ambientazione reale e simbolica.
Kiberd ci ricorda che Joyce un giorno disse che se Dublino “dovesse improvvisamente sparire dalla terra potrebbe essere ricostruita basandosi sul mio libro”. Nell’Ulisse, dice Kiberd, J. ha costruito una mappa con la “psicogeografia” della città.
In un certo senso proprio la città mi ha spinto a leggere adesso Ulisse. In ottobre ci ho corso la maratona e girando la città correndo, o camminando da turista, mi son detto che era proprio venuto il momento.
Per ora basta così. Sì, il primo intervento del diario di lettura dell’Ulisse in verità è una specie di premessa. Al prossimo giro vi dico la mia impressione sui primi episodi, diciamo i primi sei o sette, le prime ore del giorno.
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