Al Buon Romanzo non è una libreria qualsiasi: come dice il suo nome, infatti, vende solo libri di qualità. Romanzi, soprattutto; racconti, qualche saggio. Nata dalla passione per i libri di Francesca, ricca ereditiera italiana sposata con un ambiguo manager dell’industria culturale, e Ivan, libraio di professione e colto conoscitore della letteratura. Soprattutto quella di qualità, che non guarda quante copie sono state vendute, e cosa dicono i critici.
E così costituiscono un comitato di otto esperti, prevalentemente scrittori, i cui nomi rimangono segreti a tutti tranne ai due fondatori, fanno stilare loro una lista di titoli imprescindibili per la loro qualità, e aprono Al Buon Romanzo, in via Dupuytren a Parigi. Che in breve tempo raggiunge un grande successo: tutti ne parlano, tutti visitano il negozio, tutti acquistano, sul web si diffonde il passaparola, sui giornali l’attenzione per la qualità; la libreria diventa un luogo di incontro affollato di persone e di chiacchiere:
“Lei è la conferma che, di tutte le funzioni della letteratura, una delle più felici è far riconoscere tra loro persone nate per capirsi.”
Ma come sempre avviene, il successo causa invidia: inizia un giornale a pubblicare una lettera contro la libreria, poi un altro instilla il dubbio sulla sincerità dell’iniziativa, un terzo la denuncia come operazione di stampo fascista e totalitaria. Sui muri compaiono locandine contro il Buon Romanzo, mentre in via Dupuytren aprono a breve distanza una libreria dopo l’altra. In questo climax di odio crescente, si arriva a veri e propri attentati a tre dei componenti del comitato, lo spunto da cui inizia la narrazione (seguiamo poi le vicende attraverso le voci dei protagonisti, nei loro racconti alla polizia).
Sulle tracce del colpevole, nel tentativo di schivare nuovi attacchi veri o diffamatori, contro l’opinione pubblica e la giustizia che non lo ritiene un caso su cui indagare, Francesca e Ivan combattono con forza per proteggere il loro progetto e la bontà della letteratura:
Noi non sappiamo che farcene dei libri insignificanti, dei libri vuoti, dei libri fatti per piacere.
Noi non vogliamo libri raffazzonati, scritti in fretta e furia, si sbrighi, me lo finisca per luglio, a settembre facciamo un lancio come si deve e ne vendiamo centomila copie di sicuro.
Vogliamo libri scritti per noi che dubitiamo di tutto, che piangiamo per un niente, che sobbalziamo per ogni minimo rumore alle spalle.
Vogliamo libri che al loro autore siano costati molto, libri in cui si siano depositati i suoi anni di lavoro, il suo mal di schiena, i suoi punti morti, qualche volta il suo panico all’idea di perdersi, il suo scoraggiamento, il suo coraggio, la sua angoscia, la sua tenacia, il rischio che si è assunto di sbagliare.
Vogliamo libri splendidi che ci tuffino nello splendore del reale e lì ci tengano avvinti; libri che ci provino come l’amore sia all’opera nel mondo accanto al male e totalmente contro di lui, anche se talvolta non si capisce, e che lo sia sempre, tanto quanto il dolore lacererà sempre i nostri cuori. Vogliamo buoni romanzi.
Vogliamo libri che non ignorino niente della tragedia umana, niente delle meraviglie quotidiane, libri che facciano tornare l’aria nei polmoni.
Il libro si intitola *La libreria del buon romanzo*, scritto da Laurence Cossé ed edito da e/o. L’ho visto alla Fiera del Libro di Torino, mi ha attirato, poi ho pensato che fosse una cavolata, poi un amico mi ha convinta. E ne è valsa la pena, avvincente, carina la storia, tanti spunti apprezzabili per gli amanti della letteratura.
“Ma il nonno mi ha lasciato molto di più, mi ha lasciato l’amore per la letteratura e un’altra cosa fondamentale, la convinzione che la letteratura sia importante. Ne parlava spesso. La letteratura è fonte di piacere, diceva, è una delle rare gioie inestinguibili, e non solo. Non deve essere separata dalla realtà. Nella letteratura c’è tutto. E’ il motivo per cui non uso mai la parola finzione. La materia dei libri è costituita dalle sottigliezze della vita. Insisteva: hai capito che sto parlando del romanzo? Non ci sono solo le situazioni eccezionali nei romanzi, le questioni di vita o di morte e le grandi prove, ci sono anche le difficoltà ordinarie, le tentazioni, le delusioni banali. E rispondono a tutte le attitudini umane, a tutti i comportamenti, dal più nobile al più miserabile. Uno legge e si domanda: cosa avrei fatto io? Deve domandarselo. Ascoltami bene: è un modo di imparare a vivere. Certi adulti ti diranno di no, che la letteratura non è la vita, che i romanzi non insegnano niente. Sbagliano. La letteratura informa, istruisce, addestra.”
*giuliaduepuntozero
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