Crediamo tutti di conoscere la persona che amiamo.
Nostro marito, nostra moglie. E li conosciamo davvero, anzi a volte siamo loro: a una festa, divisi in mezzo alla gente, ci troviamo a esprimere le loro opinioni, i loro gusti in fatto di libri e di cucina, a raccontare episodi che non sono nostri, ma loro. Li osserviamo quando parlano e quando guidano, notiamo come si vestono e come intingono una zolletta nel caffè e la guardano mentre da bianca diventa marrone, per poi, soddisfatti, lasciarla cadere nella tazza. Io osservavo la zolletta di mio marito tutte la mattine: ero una moglie attenta.
Crediamo di conoscerli, di amarli. Ma ciò che amiamo si rivela una traduzione scadente da una lingua che conosciamo appena. Risalire all’originale è impossibile. E pur avendo visto tutto quello che c’era da vedere, che cosa abbiamo capito?
Potrei andare avanti ancora per parecchie righe, ma poi trascriverei l’intero romanzo, e forse non è il caso. Sarà banale iniziare con un incipit, però ditemi, vi ha legati allo schermo oppure no?
Queste righe sono tratte da *La storia di un matrimonio* di Andrew Sean Greer, edito da Adelphi. L’ho scoperto grazie a una recensione di D’Orrico, sul Corriere della Sera Magazine di qualche settimana fa. Non sempre mi trovo d’accordo con i suoi consigli, però in questo caso tanto di cappello. In quell’articolo D’Orrico suggeriva la lettura di questo libro, di cui al momento della stesura del pezzo aveva letto solo un capitolo, convincendolo però a parlarne immediatamente e di pubblicare al posto di un articolo già pronto (se non ricordo male sul libro di Auster) una recensione entusiasta.
Sono d’accordo. Brevemente la trama: ambientato negli anni ’50 (precisamente 6 mesi nel 1953) negli USA, a San Francisco, raccontato dalla voce narrante di Pearlie Cook, la moglie del matrimonio del titolo, ovviamente. Sposata con Holland, un uomo bellissimo, come ci dice fin dalle prime pagine, madre di Sonny, donna premurosa verso i suoi due uomini, il primo reduce di guerra, il piccolo reduce dalla poliomelite.
Storia di un matrimonio: proprio questo è il centro del romanzo, e delle vicende che in quei 6 mesi di cui scrivevo sopra hanno svelato a Pearlie chi era veramente suo marito, cos’era il loro matrimonio, e anche chi era lei.
Non svelo di più, perché proprio qui sta il bello del libro: Pearlie racconta, ricorda, e la narrazione si scopre man mano di pagina in pagina, con inaspettati colpi di scena. Ce ne sono diversi, e soprattutto nella modalità con cui li svela ho apprezzato la bravura di Andrew Sean Greer e la bellezza di questo libro. Forse un semplice espediente narrativo, ma molto efficace, che ben si lega alla naturalezza con cui Pearlie racconta una storia che fin dalle prime pagine sembra una storia universale, una storia in cui, per un verso o per l’altro, anche noi finiamo per riconoscerci.
*giuliaduepuntozero
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